Benessere

“prego, entra fuori!”. tra estraneità e familiarità

25 Settembre 2020

Caro Cigno Nero,                               

spesso mi capita di venire a contatto con persone di varie età che possono essere anche legate a me affettivamente. Noto che una parte di queste affermano di essere depresse o che non riescono ad affrontare dei problemi che secondo me sono di ordinaria quotidianità.

Mi chiedo come mai adesso ci sia così tanta difficoltà nell’affrontare la vita con i suoi normali accadimenti.

Com’è possibile che si possa pensare di poter essere felici e sereni sempre, come si può pretendere che la vita sia come uno spot della pubblicità?

Questo tipo di atteggiamento inizio a non tollerarlo decisamente più, anche perché queste persone poi tendono a voler stare comunque sempre al centro dell’attenzione altrui e ad aggrapparsi alle persone che secondo loro stanno bene, e che invece vivono vite normali, come le loro.

Sono io che sono diventata intollerante e che mi sono stancata di giustificare questi comportamenti oppure effettivamente l’aumento esponenziale di queste persone depresse è oggettivo?

Paola

 

Cara Paola,

la storia dei sentimenti procede di pari passo con quella degli uomini e il momento storico presente può essere identificato ‒ per dirla con Schmit e Benasayag ‒ con “l’epoca delle passioni tristi”.  Molti di noi non riescono a far fronte alla complessità del reale, soprattutto se questo reale comporta un crescente e diffuso senso di incertezza.

Il quotidiano ci richiede energie su così tanti versanti, dal lavoro agli affetti, che anche un’ inezia “ordinaria” può farci vacillare.

Pur non essendo a nostro agio con la dimensione tragica che la vita contempla e che proviamo con tutte le forze ad allontanare cercando rifugio altrove, siamo comunque consapevoli che la felicità non è una condizione perenne, che la sua natura è quella dell’attimo. Il fatto di saperlo, però, non spegne in noi il desiderio di perseguire quella felicità con una specie di nostalgia.

Il “sapere” che la vita non è come lo spot di una pubblicità non ce la rende per questo meno difficile ‒ e a volte meno dolorosa ‒ rendendoci evidente che la sola razionalità non è sufficiente ad arginare l’emotività.

Ci sono tuttavia persone che trovano un maggiore equilibrio tra ragione e sentimento, e sono capaci di andare avanti senza troppe esitazioni anche di fronte la sofferenza.

Ecco allora che l’umanità ci mostra quanto siamo diversi gli uni dagli altri: gli uni riescono a non farsi sopraffare dalla fragilità, gli altri ne vengono travolti, e spesso debordano come un fiume in piena inondando il confine dell’altro.

Come spesso accade, però, la diversità può disturbare. Ma cos’è che ci disturba esattamente quando noi siamo gli uni e loro sono gli altri?  Perché questa diversità, che ci si presenta sotto forma di inondazione, mette a dura prova la nostra tolleranza?

C’è una parola tedesca, “unheimlich”, che potrebbe venirci in aiuto: in italiano la traduciamo con “perturbante”, ma si tratta di  un termine problematico perché la radice heim- rimanda a ciò che è “familiare, domestico, intimo”, e al contempo a ciò che è “segreto, estraneo, pericoloso”. È quindi molto difficile tradurre la sua negazione, cioè quell’ unheimlich.

Perturbante diventa allora il disagio che proviamo quando ciò che ci è estraneo all’improvviso si scopre familiare, ma anche quando ciò che ci è familiare ci appare come estraneo.

Potrebbe darsi che, incontrando l’altro con la sua infelicità, ci troviamo di fronte ad un evento “perturbante” che ci costringe ad abbandonare l’abituale, la tranquillità del noto, facendoci provare la snervante sensazione di  “non essere di casa” a casa nostra.

A ben guardare, questa sensazione è però prima di tutto quella che proviamo nei confronti di noi stessi, scoprendoci ambivalenti, duplici, scissi, e quindi alla fine estranei a noi stessi. Può darsi che, nella fragilità portata dall’infelicità dell’altro ci sentiamo minacciati, perché quella fragilità che credevamo estranea ci è più familiare di quanto pensassimo.

Il filosofo Derrida ha accostato l’unheimlich al concetto di “ospitalità”, perché è quando arriva l’ospite, con la sua irriducibile diversità, che non ci sentiamo più a nostro agio come prima tra le pareti domestiche.

Possiamo aprirgli la porta per finta, e sotto sotto non vedere l’ora che se ne vada, perché  quella sua fragilità ingenua stona così tanto col nostro coerente arredo interiore; oppure possiamo aprirgli la porta per davvero ed essere ospitali. Ma, attenzione, essere ospitali per davvero vuol dire essere disposti a scoprire anche che quella famosa fragilità era già là, proprio dentro casa nostra, ben prima che lui arrivasse.

E se l’essere ospitali, innanzitutto con la parte più estranea di noi stessi che ci dona l’altro, fosse la chiave per superare l’intolleranza nei suoi confronti?

Irene Merlini

 

 

 

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Ph. Nico Di Cesare

 

 

 

 

 

 

 

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