La scomparsa di Salvatore Veca induce a riconsiderare – come avviene nel caso di pensatori significativi della nostra contemporaneità – l’insieme della sua riflessione. Molti commentatori già a caldo hanno provato in modo eccellente a sintetizzare la sua opera sulla stampa italiana mentre contributi più meditati usciranno prossimamente sulle rivista di filosofia. Al momento, dare conto in modo esauriente del suo pensiero senza una fase di rivisitazione approfondita del suo articolato contributo teorico è un compito da portare avanti, quindi mi pare opportuno offrire aggiungere solo qualche tassello in vista del ripensamento dell’intero e complesso percorso filosofico, quale è stato il suo. Un percorso che Veca ha compiuto con progressivi aggiornamenti e sviluppi delle sue posizioni, fedele alla sua militanza di studio che una volta ha espresso così: «Ci sono professori che studiano e professori che telefonano; io studio».
Mi rifaccio a un incontro dell’11 Aprile 2016 che il gruppo di “Filosofia in circolo” lo vide protagonista nel soggiorno dell’appartamento che avevo offerto per questa iniziativa. Gli avevo annunciato che ci sarebbero stati dei giovani ma le capienza ridotta della sala limitava la partecipazione a meno di una ventina di persone, ma lui – pur abituato a uditori ben più numerosi – accettò molto volentieri, dal momento che stava scrivendo un libro che pensava di rivolgere soprattutto a loro. Arrivarono in realtà molte più persone e i ragazzi si sedettero per terra ad ascoltarlo. Il titolo dell’incontro fu “Il senso della possibilità”, come anticipazione di un libro che stava scrivendo per Feltrinelli, e che poi venne pubblicato con quel titolo nel 2018.
Le sue parole di esordio furono queste: «Cominciamo con il senso della possibilità, abbozzando qualcosa come dei frammenti di un discorso che chiamerò per convenzione utopico, in cui si delineano mondi sociali possibili», e citò l’incipit di una poesia di Emily Dickinson: « Io abito la Possibilità /Una casa più bella della prosa/più ricca di finestre/superbe le sue porte». Continuò raccogliendo voci filosofiche come esclamate da altrettante finestre aperte sul mondo, preconizzando assetti sociali possibili da sperimentare nel futuro: Jon Elster in Making sense of Marx, Robert Nozick in Anarchia, stato e utopia, Max Weber in La politica come professione, e John Rawls in Il diritto dei popoli. Spiegò che il suo obiettivo nei riferimenti a questi autori fosse di mettere in alternativa due termini fondamentali della logica modale, la coppia possibilità/necessità.
In questo quadro teorico sviluppò il suo attacco di fondo nei confronti della “apatia e rassegnazione della falsa necessità”, che azzera lo spazio che può ancora sussistere nel mondo presente – assunto come ineluttabile e vincolante anche per il futuro – a proposito degli esercizi di immaginazione di chi ad esso si contrappone con la critica sociale. Veca contrassegnò il suo finale con una citazione da Eduardo Galeano in Parole in cammino: L’utopia è come l’orizzonte. Cammino due passi, e si allontana di due passi. Cammino dieci passi, e si allontana di dieci passi. L’orizzonte è irraggiungibile. E allora, a cosa serve l’utopia? A questo: serve per continuare a camminare». Aggiunse che questo camminare, l’utopia ragionevole – come l’ha definita il prof. Roberto Mordacci in un suo commento su Facebook – si può declinare come possibilità concreta e non vagheggiamento illusorio, tale da indurci a praticare una varietà inedita di esperimenti mentali e di ricerca della immaginazione.
Nel corso di queste argomentazioni l’uditorio dei più e dei meno giovani fu colpito dalla sottolineatura più volte da lui accennata di coniugare il concetto di possibilità non solo come categoria generale ma come innervata nella vita personale di ciascuno, una prospettiva del “noi” insieme con una riflessione del sé. Come a voler dire che teoria e prassi devono procedere nella stessa direzione . Del resto in un passaggio di un suo precedente libro, Non c’è alternativa”! Falso, pubblicato nel 2014, Veca sottolineava il suo impegno «in manovre intransigenti di anticipazione della gentilezza» accompagnandolo con un suggerimento di Pietro Verri: «L’uomo è come nel deserto quando non trova i suoi simili. Il vivere è noioso o si viva co’ superiori o cogli inferiori. La uguaglianza è la sola che ammette società, gioia, cordialità». Esplicita era la sua posizione sintetizzata nella quarta di copertina di quel libro: «In nome di un realismo ipocrita, la dittatura del presente scippa il senso della possibilità e riduce lo spazio della immaginazione politica e morale. L’esito è un impressionante aumento della sofferenza sociale. Abbiamo un disperato bisogno di idee nuove e audaci, che siano frutto della immaginazione politica e morale. Che non siano confinate allo spazio dei mezzi e chiamino in causa i nostri fini».
Dunque, chi l’ha conosciuto può testimoniare la sua tenacia filosofica per l’uguaglianza collettiva e insieme la cordialità della gentilezza personale. In base a queste sintetiche note mi viene da osservare che nel bell’articolo che Pierluigi Panza gli ha dedicato sul Corriere della Sera del 7 ottobre scorso la definizione di Veca quale “riformista ambrosiano” non sia scorretta, ma di fatto limitativa se si tiene conto, in particolare, di questo richiamo circa il “disperato bisogno” di radicalità utopica – al di là della cerchia del riformismo – caratterizzante il suo ultimo decennio di vita a cui qui si è fatto riferimento. Nello scorso mese di settembre egli ha offerto in lettura al Salone Pier Lombardo dieci parole da salvare che ha scelto e commentato- la prima è stata la gentilezza e poi il rispetto, le scienze, le arti, le tecnologie, i saperi, la lealtà, l’anima, il corpo, l’umanità-, aggiungendo agli interlocutori: « È solo un inizio: la parola ‘continua’ va scritta dai giovani». Si tratta di una sorta di mandato testamentario ed è auspicabile che siano giovani i suoi prossimi lettori nella prospettiva di una “utopia ragionevole” da ripensare e da praticare nella società di quel futuro che si sta già delineando.
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