I filosofi e le immagini, intervista a Elisa Caldarola
Quando guardiamo un’opera d’arte diamo per scontato il concetto di ‘somiglianza’: ci accorgiamo immediatamente se l’artista è riuscito nell’intento di realizzare un’immagine che assomiglia all’oggetto che rappresenta. Ma se proviamo a interrogarci su cosa determini la similarità, probabilmente non sapremo stabilirlo: la disposizione dei colori? La forma delle pennellate, o magari i contorni delle figure? Forse, ma potremmo trovare tuttavia altre opere che raffigurano lo stesso soggetto in modo altrettanto efficace, eppure con colori, forme e contorni diversi. Dunque in che rapporto stanno le immagini con ciò che rappresentano? Elisa Caldarola è una ricercatrice (classe 1981) in filosofia dell’Università di Padova che sa bene quanto siano complicate le risposte a queste domande. Si occupa di estetica filosofica (ha curato un libro sull’estetica di Ludwig Wittgenstein, pubblicato nel 2013), in passato è stata visiting research student al Queen’s College di Oxford. Di recente ha pubblicato su Aphex, il portale italiano di filosofia analitica, un saggio proprio sul tema della rappresentazione pittorica. Raggiunta al telefono, prova a spiegarmi come si possa studiare le immagini – o meglio, più tecnicamente le ‘figure’ – in una prospettiva filosofica. “E’ possibile che una certa filosofia possa aiutare meglio a comprendere che cosa vuol dire che per noi che una certa cosa è una figura di qualcos’altro” afferma, precisando però subito che “ci può aiutare da un punto di vista strettamente concettuale, perché la spiegazione fisiologica, psicologica, neurologica riguarda appunto queste discipline”.
Gli studi filosofici sulla rappresentazione per immagini, spiega Caldarola, si trovano un po’ al crocevia delle ricerche prodotte in altri ambiti, ad esempio, appunto, quello psicologico, o neurologico. Ma a differenza di questi ultimi, afferma, le questioni che i filosofi, e in particolare quelli analitici si pongono sono del tipo: “Una volta che ho questo materiale percettivo, come lo penso? Come lo concettualizzo? In questo ambito di indagine la filosofia delle rappresentazioni pittoriche diventa una specie di corrispettivo della filosofia del linguaggio”. Caldarola prova a riassumere questo ambito di lavoro come la ricerca di una “definizione del concetto di raffigurazione”.
Il dibattito in merito, prosegue la studiosa, è ampio, e va avanti da decenni, e soprattutto, è ancora aperto. “Un filosofo non solo cauto ma che voglia rispettare lo spirito del dibattito filosofico – sottolinea – direbbe che di soluzioni ce ne sono ancora diverse in campo”. Proviamo dunque a fare un punto sullo stato dell’arte della ricerca sul tema. A partire però da una considerazione: si tratta di argomenti discussi soprattutto in un contesto internazionale. La studiosa cita autori come Robert Hopkins, John Hyman, Richard Wollheim “di cui non ce n’è uno che sia stato tradotto in italiano, anche perché siamo in un ambito di letteratura specialistica”. Nel nostro paese un interesse per questi temi, riferisce, si è manifestato negli ultimi 10-15 anni, soprattutto con l’emergere di nuove ricerche di filosofia e estetica analitica promosse da autori come il filosofo torinese Maurizio Ferraris e da altri.
Tra le posizioni più attuali e affermate nel dibattito filosofico sulla rappresentazione Caldarola indica prima di tutto una “costellazione di teorie” che chiama “delle somiglianze oggettive” e “della trasposizione“. I fautori delle prime, come Robert Hopkins della New York University o John Hyman di Oxford, riferisce, “sostengono che sia appunto possibile individuare somiglianze oggettive, per quanto minime, fra ogni tipo di raffigurazione, e oggetti visibili”. Oppure c’è chi, come il filosofo americano Gabriel Greenberg (Ucla University), “sostiene che possiamo spiegare quali sono i meccanismi che governano la ‘trasposizione’ di aspetti visibili degli oggetti tridimensionali all’interno di un sistema raffigurativo bidimensionale. Cercando di semplificare: secondo alcuni ha senso parlare di somiglianze oggettive fra raffigurazioni e gli oggetti, secondo altri non si può parlare di somiglianze, ma sicuramente ci sono delle regole di trasposizione di ciò che è tridimensionale nel bidimensionale, che governano ogni tipo di raffigurazione”.
Somiglianze oggettive e trasposizione, comunque, precisa Caldarola, “sono teorie affini, che danno corpo all’idea che ci sia un legame oggettivo fra quello che vedi sulla superficie dell’immagine e ciò che questa rappresenta”. Un’altra idea “che ha fatto scuola”, prosegue, “anche se pochi si azzarderebbero a difenderla nella sua forma originaria” è quella di Nelson Goodman. Il filosofo americano, autore nel 1968 di un saggio famoso tradotto anche in Italiano – “I linguaggi dell’arte” – sosteneva una forma radicale di convenzionalismo, spiega la ricercatrice di Padova. Per Goodman “né la somiglianza né la trasposizione secondo certe regole spiegherebbe come funziona una raffigurazione, ma delle convenzioni, a cui ci siamo talmente tanto abituati che ci sembra naturale che un’immagine stia al posto di una certa cosa, tanto da descriverla in termini di ‘somiglianza’ ad tale cosa. Goodman sosteneva che ‘ogni cosa assomiglia a qualsiasi altra per qualche rispetto’, e che dunque la somiglianza è una nozione ‘con le maglie troppo larghe’ che non ci permette di lavorare per comprendere come funzionano le immagini.
Da un lato dunque, la discussione filosofica si è focalizzata sul tema della somiglianza o no fra raffigurazioni e oggetti. Nel contempo, sono emersi però anche altri approcci. Tra questi, Caldarola ricorda la proposta avanzata dal filosofo britannico Richard Wollheim (1923-2003), a partire dagli anni ’60. E’ la cosiddetta teoria del ‘vedere in’, per cui, spiega la studiosa, “ciò che è rilevante per capire come funzionano le immagini non è tanto ciò che c’è sulla superficie bidimensionale, conglomerati di segni e colori, ma il tipo di esperienza che le immagini, come pure altri tipi di oggetti, generano in noi”. Possiamo renderci conto di un’esperienza di questo tipo spiega, “ad esempio quando guardiamo una nuvola e ci riconosciamo un cavallo. La grande differenza tra il cavallo nella nuvola e un ritratto di Leonardo è che la nuvola è un fenomeno naturale, a cui accade di avere una forma tale per cui quando la guardiamo siamo in grado di riconoscervi un cavallo. Una raffigurazione è invece il frutto di un’attività intenzionale. Quando la guardiamo, per Wollheim, ci mettiamo sulle tracce dell’intenzione di chi l’ha prodotta, e la nostra esperienza di una raffigurazione è corretta nel momento in cui riusciamo a cogliere quest’intenzione e riconoscere quello che la persona che ha prodotto l’immagine intendeva che noi vi riconoscessimo”.
Da ultimo, c’è l’eredità dello storico dell’arte Ernst Gombrich (1909-2001) autore di molti studi sul problema della rappresentazione figurativa. Caldarola in proposito ricorda due filosofi contemporanei: Dominic Lopes e John Kulvicki. Le loro ricerche, spiega, più che occuparsi della “fenomenologia dell’esperienza, cioè di che effetto ci fa percepire le immagini, sottolineano l’importanza dei processi cognitivi che determinano il riconoscimento di una figura”. L’idea alla base dei loro studi, prosegue “è che abbiamo tanti modi di riconoscere il tridimensionale nel bidimensionale, come mostrano le ricerche sulla percezione visiva. Questi filosofi vogliono spiegare come gestiamo queste informazioni visive a livello concettuale, come le usiamo per fare riferimento, attraverso le immagini, ad altri oggetti”. @leopoldopapi
Un commento
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Grazie a Leopoldo Papi per la sua attenzione. Una precisazione: per chi fosse interessato, di Richard Wollheim è stato tradotto in italiano “L’arte e suoi oggetti” (Marinotti 2013).