Filosofia
Addio a Agnes Heller, che andava in direzione ostinata e contraria
La scomparsa, ieri, di Agnes Heller probabilmente solleciterà una riflessione da parte del mondo dei filosofi su ciò che resta. Non sono un filosofo e dunque mi asterrò dall’analizzare i testi e i temi che accompagnano il suo percorso riflessivo nel corso di una lunga vita come la sua proposta intorno alla teoria dei bisogni, oppure che cosa significhi oggi etica.
C’è tuttavia un tema, tra quelli su cui Heller ha scavato con pazienza, nel corso della sua vita, su cui vale la pena riflettere anche da non filosofi: quello della vergogna. Meglio del potere della vergogna, un sentimento, anzi a suo giudizio “l’unico sentimento morale innato di cui possiamo parlare”. Un sentimento su cui più volte Agnes Heller ha tessuto l’elogio perché ritenuto da lei un sentimento reattivo cui segue la coscienza, un sentimento di tipo orientativo, in cui le scelte contano.
Della reazione indotta dalla vergogna credo che sia bene riflettere come un aspetto che riguarda la funzione pubblica di un intellettuale che voglia presentarsi come voce pubblica. Un aspetto che riguarda non genericamente gli intellettuali, ma quella porzione di intellettuali che pongono al primo posto la loro funzione pubblica e critica, anzi che scelgono di essere la voce critica radicale non di ciò che non condividono o di un mondo migliore che auspicano, ma prima di tutto del proprio mondo di appartenenza, del mondo culturale, politico in cui si riconoscono, ma con cui confliggono radicalmente perché il potere, le persone al potere che lo rappresentano, praticano una gestione del potere, diffondono una giustificazione culturale del loro potere come stravolgimento e dunque come sconfessione della loro scelta di identità e di campo.
È una condizione che spesso riconosciamo come onere e onore di alcune figure intellettuali nei regimi dittatoriali o totalitari. Non è detto che questo sia sempre vero. Accade anche nei regimi democratici e riguarda la condizione di chi pone domande scomode al senso comune. Se noi restassimo in Italia e scegliessimo questa chiave per parlare pubblicamente diffusamente, documentariamente delle figure di questo tipo non troveremmo certamente difficile discutere di figure come Pier Paolo Pasolini, come Ignazio Silone, oppure come Leonardo Sciascia. Scelgo Sciascia
Voglio ancora soffermarmi su Sciascia.
Nel novembre 1977, Sciascia (Intellettuali e terrorismo, in “La Stampa” 25 novembre 1977), così definiva l’intellettuale:
“Uno che esercita nella società civile la funzione di capire i fatti, di interpretarli, di coglierne le implicazioni anche remote e di scorgerne le conseguenze possibili. La funzione, insomma, che l’intelligenza, unita a una somma di conoscenze e mossa, principalmente e insopportabilmente dall’amore alla verità, gli consentono di svolgere”.
In questa frase noi dobbiamo concentrare la nostra attenzione sull’avverbio «insopportabilmente».
Mi sembra, infatti, che questa sia la famiglia concettuale entro cui riconoscere l’esperienza riflessiva di Agnes Heller. Quell’esperienza definisce una famiglia di intellettuali specifici che è stata propria del Novecento e che si sintetizza in alcune figure solo che nella nostra memoria sono marginali, ma a cui la nostra possibilità di pratica della libertà deve molto. Ne voglio considerare uno – Gaetano Salvemini – fotografandolo in un momento decisivo del Novecento: quello del trionfo dei totalitarismi tra anni ’30 e anni ’40. Lo voglio considerare non in generale, ma in quella congiuntura, perché quel suo agire specifico dice anche della sua solitudine di allora, ma anche della nostra smemoratezza nei suoi riguardi, oggi.
È il 28 giugno 1935. Salvemini come molte altre figure intellettuali di fama mondiale è a Parigi al Congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura. Prende la parola la sera, nel momento di massima affluenza. Tutti si aspettano che parli del fascismo italiano. E a quel tema infatti accenna, tra gli applausi di tutti presenti. Ma poi vira bruscamente e così prosegue:
“C’è ancora un punto su cui vi chiedo il permesso di esprimere tutto il mio pensiero. Dopo aver ascoltato il discorso di André Gide, io gli domando umilmente di ammettermi nella sua società individualista comunista che garantisce la libertà a tutti i suoi figli, non a taluni soltanto. Se mi ci accoglie, gli prometto di non chiedergli mai un posto: nemmeno quello di commissario del popolo o di ambasciatore. Ma io mi domando se la società sovietica così come si presenta oggi è veramente quella società comunista individualista dove io mi auguro di essere ammesso non in qualità di funzionario, ma come cittadino”.
Un gelo passa per la sala e nel silenzio degli sguardi attoniti conclude:
“Siamo tutti d’accordo che libertà significa il diritto di essere eretici, non conformisti di fronte alla cultura ufficiale e che la cultura, in quanto creatività, sconvolge la tradizione ufficiale. La libertà di creazione nelle società borghesi di tipo non fascista è compressa. Nelle società borghesi di tipo fascista è totalmente repressa. Altrettanto repressa è nella Russia sovietica. Mi dispiace di aver scosso parecchie convinzioni. Forse occorre aver vissuto l’esperienza di uno Stato totalitario per rendersi conto dell’odio e del disprezzo che qualsiasi Stato totalitario, qualsiasi dittatura suscita nel mio animo”.
Forse. Ma diversamente si potrebbe dire occorre essere attraversati da una dimensione profetica, intendendo con questo termine non colui che è dotato di una visione del futuro, ma chi si sente investito di un compito che riguarda prima di tutto il richiamare con durezza e coerenza quelli della propria parte, i “propri”.
Agnes Heller apparteneva a questa ristretta compagnia di figure pubbliche controcorrente, decise a muoversi in direzione ostinata e contraria, comunque a non sottomettersi.Ovvero a non omaggiare il potente, anche quando il potente di oggi sia stato, fino a ieri, oppositore. Perché non è il suo passato a garantire del suo presente e del suo avvenire e con lui, fino a quando incarna potere, del nostro presente e del nostro avvenire. Ciò che conta è solo ciò che fa una volta divenuto potente. Da ieri, anche per questa sua intransigenza, siamo più soli.
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