È uscita oggi su Repubblica l’ennesima intervista al Ministro Beatrice Lorenzin che, “mentre tiene in braccio a turno i suoi due gemelli” (cit.), si dichiara senza se e senza ma contro la gravidanza per altri, definita niente di meno che una nuova forma di prostituzione. Anzi, una “ultra prostituzione”, con buona pace di quelle donne che, mentre si afferma di voler difendere, vengono insultate ricorrendo addirittura al superlativo, come se l’epiteto piano non bastasse.
Non è sola, la Lorenzin, in questo suo accorato appello a mettere al bando universale (!) la pratica della gravidanza per altri che al momento invece è legale, con restrizioni varie secondo i Paesi, in molti Stati degli Usa, in Canada, in alcuni Paesi dell’est Europa, ma anche in Grecia, in Inghilterra, e nell’est Asiatico, dove però la situazione è lasciata spesso all’iniziativa semi individuale, con episodi di sfruttamento francamente inquietanti.
A fare compagnia al nostro Ministro c’è un grande gruppo transnazionale di femministe, capeggiate dalla filosofa Sylvaine Agacinsky, docente a Parigi all’Ecole des études en sciences sociales. Tutte insieme gridano al mercimonio, allo sfruttamento del corpo femminile, all’uso della donna come mezzo di produzione di bambini, rieccheggiando un dibattito accesissimo che occupò le femministe negli anni Ottanta. Ai tempi, le rappresentanti del movimento costituirono una Rete internazionale (Finrrage) che chiedeva il divieto universale (!) del ricorso a tutte le tecniche di riproduzione assistita, anch’esse viste come forme di mercimonio, sfruttamento del corpo femminile, uso della donna come mezzo di produzione di bambini. Le parole erano più o meno davvero le stesse usate oggi e anche allora si parlava di “bordello riproduttivo” alludendo alle “prostitute della riproduzione”. Quella loro battaglia è stata persa: la riproduzione assistita si è diffusa e continua a diffondersi sempre più, al punto che oggi è entrata nel normale scenario riproduttivo delle trentenni-quarantenni, nonostante i costi fisici, psicologici ed economici. Non avevano tenuto conto, le attiviste del Finrrage, del punto di vista delle donne infertili, e nemmeno di quello delle donatrici di ovuli, tutte trattate come se fossero donne incapaci di scegliere in modo autonomo, perfino consapevole, che cosa fare del proprio corpo.
Mi sembra che lo stesso errore si stia facendo oggi di fronte alla gravidanza per altri, che di certo pone questioni di natura etica molto forti, ma che proprio per questo non andrebbe, credo, vietata tout court, ma piuttosto molto ben regolamentata. Il perché lo ha spiegato molto bene, in toni pacati e lucidi, Emma Bonino, che certo non può essere accusata di posizioni anti femministe. In un’intervista pubblicata sempre su Repubblica qualche giorno fa, la Bonino fa notare «che l’utero in affitto in Italia è vietato. Non lo è in altri Paesi. Su questo si può aprire un dibattito, ma – appunto – l’affermazione “io non lo farei” non deve diventare “allora non farlo tu”». Insomma, una convinzione personale non può pretendere di diventare una legge. «Quando ci si occupa di questioni affettive private serve più rispetto. Bisogna saper guardare esperienze, dolori, mancanze degli altri senza pontificare. L’altra – quella che lo farebbe – è un’adulta come noi: le sue opinioni, le sue scelte, quelle che fa e non ci impone, sono meno rispettabili?».
Tutto ciò che ruota intorno alla riproduzione e alla genitorialità è oggetto di sguardi, considerazioni, sentimenti diversissimi, che coinvolgono vissuti individuali, culturali, sociali che non possono essere ingabbiati nella categoria rigida del giusto o dello sbagliato. Mi è capitato per lavoro di intervistare sia madri surrogate (americane, di media borghesia, già madri di figli loro) sia donatrici di ovuli (spagnole), tutte spinte, almeno a parole, dal desiderio di essere strumento di felicità per altre donne e che vedevano il denaro ricevuto in cambio come una compensazione delle fatiche da affrontare: le prime mi hanno detto che non avrebbero mai donato un ovulo, perché il bambino dotato del loro stesso patrimonio genetico sarebbe stato per loro un figlio; le secondo mi dissero che mai avrebbero affrontato una gravidanza per altri, perché un bambino cresciuto nella loro pancia, anche se geneticamente estraneo, lo avrebbero considerato come il loro bambino. Chi ha ragione? Che cosa rende un bambino il figlio di qualcuno? Il patrimonio genetico? L’essere stato partorito da quella donna? O l’essere stato desiderato fortissimamente? Come si può pretendere di avere la verità in mano su queste questioni?
Ora, parliamoci chiaro: siccome è impensabile che la pratica della maternità surrogata sparisca universalmente (!) visto quanto è già diffusa, più o meno legalmente, in tutti i continenti, quello che si dovrebbe davvero fare qui da noi, per tutelare tutte le persone coinvolte – donne che offrono il proprio utero, madri e padri del desiderio, e ovviamente i bambini – sarebbe dar vita a una legge che regolamenti la questione in ogni dettaglio, frutto di un dibattito serissimo, aperto, umano, sensibile e mai dogmatico. Come ha detto la Bonino, per esempio: «Se c’è un problema di sfruttamento bisogna intervenire su quello». E lasciare che siano le persone coinvolte, nella più piena tutela, a decidere chi può e vuole dichiararsi madre o padre.
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