UE

Voto greco: che Europa costruiamo se gli europei credono meno alla democrazia?

20 Settembre 2015

Otto mesi dopo, Alexis Tsipras è nuovamente incaricato, dal popolo greco attraverso l’esercizio del voto, di formare un governo che aiuti il complicatissimo cammino della Grecia verso un’economia nazionale più stabile, la normalizzazione del rapporto coi creditori, insomma l’uscita da una lunga crisi strutturale che continua a fare di Atene l’osservato speciale d’Europa. Mettendo a confronto i risultati di gennaio – quelli delle elezioni che consacrarono Syriza come partito di governo nel nome di un patto europeo da ridiscutere completamente – con quelli di oggi, viene facile parlare di risultati in fotocopia, e persino di governo fotocopia visto che il capo di Syriza (che non avrài 151 seggi che consentono di governare da soli) ha confermato l’intenzione di rinnovare la coalizione con Anel. Le percentuali della vittoria sono simili, il sostegno percentuale ricevuto dal partito del premier uscente è analogo, così come le proporzioni del vantaggio rispetto al partito moderato Nea demokratìa. Non sfondano gli estremisti della destra antieuropea e filofascista di Alba Dorata e restano sostanzialmente invariati tutti gli altri partiti storici della scena ellenica. Perdono circa un punto percentuali gli Indipendenti Greci di An.El, partito di destra, che saranno di nuovo alleati di Tsipras nella formazione del nuovo governo.

Insomma, nonostante tante cose siano successe, nonostante Tsipras abbia prima minacciato e poi rigettato la linea dura di Varoufakis, nonostante un referendum vinto sulla promessa di restare in Europa rigettando però le dure condizioni di salvataggio poi rimangiato nei fatti, nonostante tutto, in questi nuove mesi in Grecia e nel suo elettorato non è cambiato nulla? È la risposta più immediata, più facile e probabilmente la più comoda, ma non la più corretta. Infatti, trascura un dato che non è un dettaglio, cioè il calo di affluenza evidente, che ha portato al voto solo il 54% degli aventi diritto, rispetto al 64% dell’inizio dell’anno. Il dieci percento in termini assoluti, oltre il 15% relativamente a quanti avevano votato a gennaio. Circa un milione di elettori, che in un paese piccolo come la Grecia sono tanti.

Al di là di quello che Tsipras riuscirà a fare o a ottenere, e indipendentemente dal fatto che il piano di salvataggio deve ancora dimostrare sul campo di essere applicabile e utile nel medio periodo, la riflessione che il dato impone è seria, e ampia, e trascende sicuramente i confini della Grecia. Una nazione che è stata chiamata a dire con chiarezza cosa voleva, è stata richiesta – capita, nelle democrazie – di dire quale ricetta voleva vedere applicata e, in definitiva, in quale rapporto voleva porsi nei confronti dell’Europa. Un paese, la Grecia, prima spinto a forza (e con l’inganno e i trucchi contabili) a entrare in Europa, e poi trattato come fosse sempre inadempiente dopo anni di sacrifici. Infine, un paese che ha visto il suo voto e le sue scelte democraticamente espresse trattate come semplici desiderata non vincolanti e, infatti, disattesi. Non è ovviamente solo colpa dell’Europa o di Angela Merkel, ma anche di una classe dirigente poco trasparente e responsabile. In parte, sicuramente, le colpe sono anche di Alexis Tsipras, politico tatticamente abile e già navigatissimo, ma spregiudicato quanto basta per accettare tutto il realismo che serve dopo aver promesso cambiamenti di rotta radicali. Ma di certo questa disaffezione al voto è un segnale da non trascurare se è vero che si manifesta nel pieno di un voto di emergenza, uno di quei casi in cui, di solito, i cittadini vanno a votare in massa, mossi da spinte, pulsioni, paure e rabbie, e invece in questo caso sono stati in gran parte a casa.

Ora la palla passa a Tsipras, innegabilmente ritenuto dal suo popolo il meno peggiore per guidare questa fase di estrema difficoltà. È stato scelto, con ogni probabilità, perché ritenuto comunque il più credibile nella difesa degli interessi greci, e quantomeno capace di mediare e di farsi rispettare a Berlino e a Bruxelles e a Francoforte, rispetto a un’alternativa che sembra essere l’espressione diretta e non mediata del vincolo esterno di matrice europea. Il destino della Grecia e dell’Europa lo scriveranno i prossimi mesi, ed è quantomeno lecito aspettarsi che quest’ultimo salvataggio greco non sarà l’ultimo, e non perché non sarà realizzato il piano di riforme, ma perché piuttosto la struttura stessa dell’economia greca e una nuova cura da cavallo a base di austerità, combinate insieme, procrastineranno una crisi che ancora non sembra prossima ad essere archiviata. Ma il segnale che arriva dalle urne di Atene e fino al cuore dell’Europa è chiaro già oggi: ignorare l’espressione democratica indebolisce la voglia di democrazia. Non era questo l’obiettivo dell’Europa sognata durante la Seconda Guerra Mondiale. E non è questo un orizzonte sereno verso cui camminare. Pensarci adesso potrebbe evitarci di avere dolorosi rimpianti domani.

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