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Verso un’opinione pubblica europea? Qualche considerazione e qualche dato
Il referendum greco ha messo, ancora una volta, in luce l’ambivalenza del rapporto dei cittadini dei paesi membri con l’Unione europea. Un rapporto che sembra sempre di più dominato dalla paura. Che i paesi restino uniti, sotto il governo di una èlite tecnocratica distante e autoreferenziale, ma anche che si separino, con il rischio che l’eventuale ritorno all’autonomia non comporti fortune superiori alle difficoltà di cui si aprirebbe la stagione. Contemporaneamente, però, è riemersa una speranza, che un’opinione pubblica europea stia mostrando, nonostante tutto, i segni di una sua, pur parziale, esistenza.
Ma di che tipo di opinione pubblica si può parlare quando si parla dell’Unione Europea? Garton Ash qualche giorno fa ha sottolineato che “la realtà della democrazia europea resta nazionale (e che) quindi non esiste una sola Grecia, bensì 28 grecie diverse, a seconda del paese in cui siete”. 28 paesi diversi e ognuno moltiplicato per 28, in un gioco di specchi che se non ha l’effetto di aumentare la distanza, di certo amplifica il rumore. Il problema, quindi, non è tanto la persistenza – che in fondo nessuno mette in discussione – di 28 entità e identità nazionali, ma la limitata porosità dei confini nazionali quando si tratta di definire una comune narrazione. Quando si parla all’opinione pubblica continuano a prevalere le convenienze nazionali a far prevalere la paura e alimentare la percezione della distanza delle istituzioni europee. E questo si riflette sul disorientamento e sull’indisponibilità dei cittadini.
Nel 2005, anno dei referendum con cui Francia e Olanda rigettarono il progetto di Costituzione europea, l’Eurobarometro mostrava una significativa incongruenza: la maggior parte dei cittadini europei ignorava i contenuti del documento ma esprimeva, allo stesso tempo, un grande desiderio di dire la propria nel merito. Caso estremo l’Italia, dove la conoscenza del dettaglio delle questioni era minima, ma l’auspicabilità di un referendum preventivo era considera massima. Peccato che il testo – come i solerti partecipazionisti ignoravano – fosse stato già approvato per via parlamentare prima della rilevazione. Quello italiano è di certo un esempio non rappresentativo, ma utile a far risaltare due parole chiave che, dopo dieci anni, sono ancora centrali nella considerazione dei limiti della costruzione di una cittadinanza europea: informazione e appartenenza.
I cittadini europei percepiscono in modo chiaro oramai il disagio di non saperne abbastanza e sono infastiditi dalla consapevolezza che la loro conoscenza delle questioni europee dipende completamente dalla buona volontà dei loro gatekeepers. Che i mediatori politici non godano oggi di grande fiducia è noto, quello che mostra l’Eurobarometro di interessante è la crescente sfiducia nei confronti dei mezzi di informazione. Alla fine del 2014 tutti i media avevano perso almeno 3 punti percentuali rispetto all’anno precedente, già considerando un livello di fiducia molto relativo. Basti considerare che la televisione, utilizzata da oltre l’85 per cento dei cittadini per informarsi, è considerata uno strumento di informazione affidabile da meno della metà delle persone. Questo dato evidenzia sia la diffidenza che cresce nell’opinione pubblica nei confronti di tutti i corpi intermedi, sia il disagio dei cittadini europei che per i due terzi ritengono di non saperne abbastanza delle questioni europee. Fondamenta solide per costruire la paura, su cui è più facile far muovere certe forme di consenso.
Allo stesso tempo, incerto è anche il senso di appartenenza. Fortissimo, quando si tratta dell’Europa, ma debole quando si parla dell’Unione Europea (i due terzi contro meno della metà delle persone esprime questo legame). L’appartenenza riguarda la terra, la storia e i valori, ed è resa viva e attuale dallo sport e dagli scambi culturali e turistici, ma è debole per quel che riguarda le istituzioni. Questa ambivalenza rende debole la capacità di coinvolgimento delle persone al di fuori di momenti particolarmente critici, in cui è più facile trovare una propria collocazione da una parte o dall’altra. Si o No. Soprattutto se è in gioco l’integrità della propria prima patria. Non perché gli europei non si sentano a pieno titolo cittadini dell’Unione – i due terzi si dichiara tale, un dato di molto superiore all’affluenza elettorale del 2014 – ma perché non si vedono trattati come tali. Inevitabile, poi, che un diritto violato a lungo possa essere considerato decaduto; così in Grecia, Italia e Bulgaria solo il 45, 47 e 48 per cento delle persone sente di possedere a pieno titolo la cittadinanza europea. Con un calo in Grecia di 4 punti rispetto alla rilevazione della primavera dello stesso anno. Ma anche in questi casi, i meno europei oggi sono gli anziani, che spesso sono coloro che hanno vissuto il sogno senza mai goderne i frutti e pagandone ora le conseguenze più dure, mentre per i nati negli anni Ottanta è impossibile non vedersi europei. Un dato che, d’altra parte, ha alimentato la scelta, operata da molti negli ultimi anni, di convertire la campagna contro l’Europa in una campagna contro ‘questa’ Europa. Un gioco sterile, che manca ancora il segno. L’obiettivo, come si diceva all’inizio, della narrazione comune, che non sia quella – destinata al fallimento – dei cittadini contro le istituzioni europee, come da qualche parte pure si sta provando a fare. L’unica che tiene è quella della pace, valore fondativo del progetto europeo, considerata a larghissima maggioranza come il più importante risultato dell’Europa unita. Una narrazione necessaria, in un momento in cui la minaccia della guerra è vicina oltre i confini, ma non sufficiente a dire ai cittadini cosa con quella pace è possibile ancora costruire. Su questa sfida si gioca la prossima partita verso una opinione pubblica. Molteplice ma unita.
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