UE
Verso le elezioni europee: la crisi dell’Unione Europea è davvero irreversibile?
Ogni elezione del Parlamento Europeo è accompagnata da richiami e citazioni più o meno esatte al manifesto europeista e federalista che l’ex-comunista Altiero Spinelli, il repubblicano Ernesto Rossi e il socialista Eugenio Colorni scrissero durante il confino a Ventotene nel 1941, pubblicandolo però solo nel 1944 dopo anni di diffusione clandestina da parte di Ursula Hirschmann. L’appuntamento elettorale delle prossime europee del 6-9 giugno non sembra fare eccezione, il che non è affatto sorprendente. È infatti divenuto un tratto strutturale dell’europeismo di istituzioni e opinione pubblica colta quello di disgiungere costantemente un discorso ufficiale volontaristico e quasi utopico da una prassi politica invece immobilista, cauta, scarsamente efficace.
Il bipolarismo di tanti europeisti non sarebbe in sé un dato preoccupante se non fosse in realtà il riflesso epidermico – e cioè al livello delle élites – di un ben più massiccio e sotterraneo movimento di distacco dei cittadini del Vecchio Continente dal progetto dell’Unione Europea. I dati non mentono. In Italia, tra i 6 fondatori della Comunità Economica Europea, nel 1979 si recarono alle urne per le prime elezioni dirette del Parlamento Europeo l’85,65% degli aventi diritto; nel 1999 votò il 69,76%; nel 2019, il 54,50%. Nei Paesi Bassi, altro fondatore, il già non alto 58,12% del 1979 si è ridotto nel 2019 al 41,93%. L’affluenza complessiva alle ultime europee ha toccato il 42,61% nel 2014 e un comunque sconfortante 50,66% nel 2019 (Fonte: Affluenza | Risultati delle elezioni europee del 2019 | Parlamento europeo (europa.eu)). Al netto della tendenza occidentale al disimpegno democratico e all’individualistica ritirata nella sfera privata – il sociologo Colin Crouch ha coniato non a caso la nozione di “post-democracy” -, è evidente che il progetto dell’Unione Europea stia fallendo proprio laddove avrebbe dovuto trovare nuova linfa: il coinvolgimento popolare, l’allargamento sociale delle basi del consenso, della partecipazione, del governo comune. La democratizzazione. In virtù di questo cortocircuito, l’antieuropeismo dei Brexiteers, dei sovranisti e dei populisti ha potuto contrapporre con discreti risultati il grigio potere tecnico ed economico di Bruxelles alla vitalità repressa di comunità nazionali immaginate o, peggio, inesistenti.
Ma è davvero irreversibile la crisi dell’Unione, che è anche e sempre di più crisi di deficit democratico e, dunque, di legittimazione e di sovranità? Per rispondere senza facili catastrofismi, ci sarà utile tornare al significato originario di krisis, quello del linguaggio medico di Ippocrate. Krisis è il culmine tragico della patologia, il turning point decisivo: o il paziente non recupera e giunge al decesso o ritorna in forze, rinvigorito e anzi più sano di prima del morbo. Ebbene, anche l’Europa sta attraversando il dramma fisiologico della krisis, dalla quale potrebbe perfino uscire rafforzata, purché lo si voglia nei fatti e non solo con i buoni propositi. Il legame storico tra crisi e integrazione europea, già intuito da Jean Monnet, alza notevolmente la posta in gioco delle elezioni di giugno. Limitiamoci a due avvenimenti recenti che, pur mettendo a nudo l’inadeguatezza dell’assetto attuale dell’Unione, ne hanno anche mostrato le concrete prospettive di riforma nel breve e medio periodo e, soprattutto, la sostanziale irrinunciabilità.
Il primo è la pandemia. Il Covid-19 approda in Italia nel febbraio 2020. Presto colpirà il mondo intero, mietendo migliaia di vittime sin dalle prime settimane e imponendo ai governi continentali spese impreviste. Nel giugno 2021, la Commissione Europea approva il PNRR, piano emergenziale di spesa pubblica in parte finanziato mediate prestiti contratti sui mercati dalla Commissione stessa per conto dei Paesi membri. Intanto, si sospende e si discute senza troppi preconcetti il Patto di Stabilità (la famigerata soglia massima del rapporto deficit-PIL al 3%), figlio dell’impianto neoliberista europeo disegnato a Maastricht nel 1992. Quest’ultimo accordo fu la vittoria diplomatica di chi, come Germania e Olanda, temeva che l’unione monetaria auspicata dalla Francia di François Mitterrand andasse a scapito della stabilità dei prezzi e del pareggio di bilancio. Sebbene la timida riforma del Patto decisa in Consiglio nel dicembre 2023 non abbia intaccato i principi regolatori (dogmi?) e i rigidi parametri finanziari di Maastricht, il nodo degli investimenti, delle politiche espansive e sociali e delle vistose disparità economiche tra Stati membri è ancora aperto. Per fortuna.
Il secondo avvenimento è la guerra. L’imperialistica aggressione russa in Ucraina nel febbraio 2022 e la pulizia etnica portata avanti da Israele nella Striscia di Gaza in risposta all’offensiva di Hamas del 7 ottobre 2023 hanno ancora una volta gettato luce sugli inconvenienti di non avere una politica estera dell’Unione, geopoliticamente schiacciata sulla NATO a trazione statunitense – il cosiddetto Occidente – e, comunque, soggetta ai tatticismi e alle divergenze dei singoli esecutivi che la compongono. Il repentino e poco comprensibile cambio di approccio di Macron sul conflitto ucraino è emblematico. Analogamente, malgrado i toni apparentemente duri contro Netanyahu dell’Alto Rappresentante Josep Borrell, l’Europa fatica ad assumere una posizione autonoma rispetto agli Stati Uniti sull’autodeterminazione palestinese e, perciò, non riesce a prendere del tutto le distanze dai crimini dell’IDF e dalla cieca strategia dell’estrema destra al comando in Israele.
Pandemia e guerra hanno lasciato intravedere i potenziali vantaggi di una maggiore solidarietà europea nelle finanze e negli esteri, due antiche prerogative statali che Machiavelli e Bodin attribuivano esclusivamente al Principe. La lista degli ulteriori margini di sviluppo dell’Unione potrebbe tuttavia proseguire a lungo, includendo, in primis, la transizione energetica con i suoi costi sociali e il confronto con l’oligopolio capitalistico partorito dalla rivoluzione digitale, sfide impensabili nell’angusta cornice degli Stati-nazione otto-novecenteschi. Il punto è che, al di là delle criticità e delle minacce all’orizzonte – dalla persistenza dei sovranismi al dumping fiscale e sociale – spetterà ai partiti sedicenti europeisti il compito di coltivare in pratica i semi gettati dalla crisi europea in corso al fine di conferire un carattere finalmente politico all’Europa, fondata, come osservato da Tzvetan Todorov non molti anni fa, sulla paziente ricomposizione e armonizzazione delle differenze. È quella di Giambattista Vico la lezione più preziosa: “sembravano traversie ed erano in fatti opportunità”.
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