Partiti e politici
Vento di destra sull’Europa. La debolezza dell’UE nel caos geopolitico globale
“Destra a valanga”, titolava lunedì Repubblica, identificando nell’avanzata dei partiti conservatori e sovranisti la più significativa e dirompente novità delle consultazioni europee terminate domenica 9 giugno. La grande attesa per l’ennesimo giorno del giudizio sotto forma di tornata elettorale, questa volta con tema prescelto il futuro e la salvezza dell’Europa, è stata sufficientemente ripagata con un esito non privo di sorprese, né carente di spunti per nuove discussioni, analisi, preoccupazioni e allarmi sul destino del continente. Lo spostamento verso destra dell’asse politico appare innegabile, testimoniato da un miglioramento delle posizioni nell’assemblea di Strasburgo per tutti i gruppi afferenti a tale parte, dal PPE a ID, passando per ECR, ed è ancor più evidente osservando la forte emorragia di seggi subita invece da Liberali e Verdi. Eppure, andando a verificare i numeri, si nota come la vecchia maggioranza Ursula, imperniata su Popolari, Socialisti e Liberali, continui a tenere, almeno in linea teorica, in virtù dell’ottimo risultato dei primi e della sostanziale tenuta dei secondi, sebbene con margini sempre più risicati. Ma, scavando sotto le cifre e le percentuali, la difficoltà maggiore, per chi dovrà costruire l’assetto di comando a Bruxelles, sarà garantire a tale alleanza di governo la forza politica per legiferare e condurre l’Unione nel prevedibilmente tumultuoso prossimo quinquennio, tra guerre ai confini, conflitti sociali interni, trasformazioni socio-economiche e possibili esplosioni di crisi improvvise. Una forza, sulla cui consistenza è lecito porre dubbi, in virtù della tempesta politica abbattutasi, proprio durante queste elezioni, sui due principali stati guida del continente, Francia e Germania, dove le maggioranze di governo in carica sono state pesantemente messe in discussione.
Analizzando i risultati elettorali, emerge come il primo chiaro vincitore della tenzone sia il PPE. Oltre a confermarsi primo gruppo politico dell’emiciclo, i Popolari aggiungono una decina di seggi a quelli detenuti nella presente legislatura, dimostrando di non aver sofferto il logoramento dovuto all’esercizio del potere. Trainato dalle brillanti performance della tedesca CDU, dello spagnolo PP e dei polacchi di Donald Tusk, il raggruppamento di centrodestra si distingue come unico imprescindibile perno di ogni possibile maggioranza. Perdono seggi, ma in misura molto limitata, i socialisti, che beneficiano della riscossa del PD, della certezza del PSOE e delle vittorie di olandesi, svedesi e portoghesi, oltre che di un parziale recupero del PS francese della nuova stella Glucksmann Jr, riuscendo così a contenere i danni causati dal disastro della SPD in Germania. Dietro a questi due partiti, ma a notevole distanza, vengono poi tutti gli altri, con una lotta per la terza posizione tra Renew Europe (RE), ECR e ID, che sarà probabilmente decisa dalla campagna acquisti tra i nuovi arrivati. I Liberali di RE, positiva sorpresa cinque anni fa, subiscono una netta batosta, costituendo ora la gamba zoppa di quella che è stata fino a qualche giorno fa la maggioranza Ursula, principalmente per colpa della sconfitta del partito di Macron in Francia, ma senza dimenticare il debole risultato del FDP in Germania, il suicidio dei liberal-democratici italiani e la scomparsa di Ciudadanos in Spagna. Più ancora che tra i Liberali, però, per trovare i principali sconfitti di queste elezioni, bisogna andare a cercarli nei Verdi. I partiti ecologisti, che furono i grandi trionfatori nel 2019, sull’onda del movimento Fridays For Future, perdono un quarto dei propri eletti, arretrando in quasi tutto il continente, e pagando l’insoddisfazione dell’elettorato per quelli che molti hanno giudicato eccessi di zelo nell’implementazione del Green Deal. Approfittare degli sconquassi di questi ultimi due raggruppamenti, e delle debolezze dei Socialisti, è la mission delle destre, ma con diverse sfumature e non troppo nascoste rivalità e ostilità, tra Conservatori e Nazionalisti identitari. Alla prova dei fatti, il vento di destra in Europa è forte, ma non abbastanza per governare. La vagheggiata (da qualcuno) maggioranza Giorgia, da Le Pen al PPE, non esiste nei numeri, prima ancora che nella logica dei rapporti politici. Più realisticamente, la sfida sostenibile è in capo all’ECR, o meglio a chi in tale partito detiene responsabilità di governo nazionale, prima tra tutte la stessa Giorgia Meloni, e consiste nel riuscire a incunearsi negli accordi di governo a Bruxelles, a prezzo però, probabilmente, di spaccare il proprio gruppo nell’elezione del Presidente della Commissione. Scena già vista cinque anni fa, con il polacco PIS, oltre al M5S, nei panni oggi indossati da FDI.
La strada per Bruxelles, ad una lettura superficiale dei numeri, sembrerebbe aperta verso la naturale prosecuzione della collaudata alleanza tra le famiglie popolari, socialiste e liberali, unite nella salvaguardia dei principi liberal-democratici e dell’integrazione comunitaria. Sennonché, gli ostacoli per la governance comunitaria vengono, come al solito, dalla politica, restia a farsi comprimere in meri calcoli aritmetici. I partiti di destra anti-sistema, pur non essendo riusciti neanche ad avvicinarsi a costituire una maggioranza insieme al PPE al Parlamento Europeo, hanno sferrato un duplice colpo micidiale all’asse portante dell’Unione, composto da Germania e Francia. A Berlino, AFD, pur in calo rispetto ai sondaggi di qualche mese fa, ha raggiunto il suo massimo storico con il 16% dei suffragi, diventando il secondo partito, dopo la CDU-CSU, e superando in un colpo solo Liberali, Verdi e Socialisti, in caduta libera. In quella che è stata per almeno un quindicennio la locomotiva d’Europa, oggi impigliata in una crisi economica e identitaria al contempo, i tre partiti di governo ottengono insieme poco più del 30% dei consensi, a quindici mesi dal prossimo rinnovo del Bundestag. Le cose, per l’establishment europeista, se possibile, vanno perfino peggio in Francia, dove si sta letteralmente consumando uno psicodramma nazionale. Marine Le Pen e il suo giovane delfino Jordan Bardella hanno guidato il Rassemblement National (RN) ad un incredibile 31%, doppiando la formazione di Emmanuel Macron, ferma sotto il 15%, e di seguito tutti gli altri partiti, spingendo così il Presidente francese a sciogliere l’Assemblea Nazionale e a indire nuove elezioni legislative per i prossimi 30 giugno e 7 luglio, con il calcolato azzardo teso a stoppare, in un modo o nell’altro, la prevedibile cavalcata di Madame Le Pen verso l’Eliseo tra tre anni. Per la prima volta nella storia della quinta repubblica la destra nazionalista si trova dunque ad un passo dall’assunzione della responsabilità di governare l’Esagono, sebbene il sistema elettorale francese a doppio turno rimanga pur sempre un argine agli estremismi e la paura di un esecutivo a guida RN possa convincere molti elettori a votargli contro ai ballottaggi. Uno scenario fino a pochi anni fa inimmaginabile per una Parigi che si appresta ad ospitare le Olimpiadi, simile per certi aspetti alla storica competizione presidenziale del 2002 tra Chirac e Jean Marie Le Pen, ma senza più quella larga e riconosciuta unità repubblicana che sbarrò allora la strada al decano dell’estrema destra d’oltralpe. E’ superfluo spiegare come due così gravi crisi politiche in Francia e Germania rappresentino fonte di debolezza per l’intera UE e, in particolare, un eventuale sbarco di Bardella a Palazzo Matignon possa significare notevoli complicazioni nei negoziati a Bruxelles praticamente su ogni provvedimento comunitario, a cominciare dalle decisioni sul sostegno all’Ucraina. Se si aggiunge il lieve margine su cui si poggia il governo Sanchez in Spagna, si comprende come quasi tutti i grandi paesi europei si trovino a fare i conti con difficili situazioni interne, o peggio. Curioso che, a fare eccezione, questa volta, sia proprio l’Italia, dove Giorgia Meloni gode di un consenso elettorale invidiabile, ad un anno e mezzo dalla vittoria del settembre 2022, e si presenta come la leader più salda del continente.
Nel bel mezzo della campagna elettorale all’ombra della Tour Eiffel, nella capitale belga si inizierà invece a discutere delle nomine per i cosiddetti top jobs, i posti di vertice delle istituzioni europee. L’ottimo risultato del PPE e, nondimeno, le difficoltà di Macron in patria, sembrerebbero in realtà contribuire a favorire il bis di Ursula Von der Leyen alla presidenza della Commissione Europea. Convergenza astrale quanto mai benvenuta per l’ex ministra della difesa tedesca, sulla cui conferma non molti scommettevano nelle ultime settimane, tra dubbi seminati dagli altri gruppi parlamentari, gelosie interne ai Popolari e rumors persistenti su una possibile carta Mario Draghi, asso nella manica dell’inquilino dell’Eliseo. Proprio lui, il grande sconfitto di domenica, che ora avrà ben altro a cui pensare, e dovrà decidere se accettare già nelle prossime riunioni il nome della presidente in carica, o rischiare di trascinare le consultazioni a luglio, quando potrebbe risultare ancor più azzoppato di ora. I negoziatori dei gruppi politici sono già al lavoro per trovare la quadra, che dovrebbe ricalcare il solito collaudato sistema di spartizione di nomine e garantire l’elezione di Von der Leyen, ma i rischi di inceppamento della procedura sono dietro l’angolo. La somma di Popolari, Socialisti e Liberali nell’assemblea comunitaria conta 401 deputati, 40 in più della soglia minima di maggioranza. Sembrerebbe una cifra rassicurante, se non fosse per il pericolo rappresentato dai franchi tiratori (sì, esistono anche in UE), già materializzatosi cinque anni fa, e neanche troppo inatteso, date le non poche voci di disapprovazione espresse in campagna elettorale sulla figura della Spitzenkandidat tedesca, perfino nel suo partito. Serve una garanzia di voti ulteriore, su cui fare affidamento per evitare sorprese. La presidente in carica andrebbe volentieri a cercarli concordando l’appoggio di Giorgia Meloni, forte di 24 rappresentanti, con la quale fila d’amore e d’accordo da ormai un anno e mezzo. Le due donne hanno bisogno l’una dell’altra, perché anche la nostra premier mira ad ottenere un commissario di peso con deleghe economiche, possibilmente anche vicepresidente della Commissione, e punta a essere trattata con riguardo, quando da Bruxelles si dovranno analizzare i precari conti pubblici italiani, per cui è già scontata la procedura d’infrazione. L’abbraccio con FDI si scontra però con gli altolà lanciati a più riprese da Liberali e soprattutto Socialisti, in merito all’eventualità di accordi con il gruppo ECR. Mai con i Conservatori, pena la rottura dell’alleanza, dicono da sinistra, anche se la sola Meloni, legittimata dalla carica di premier del Bel Paese, potrebbe forse essere accettata, se semplicemente si aggiunge agli altri tre gruppi. A inserire un altro elemento di complicazione ci hanno pensato i Verdi, che cinque anni fa non votarono la Von der Leyen, ma oggi, notevolmente più deboli, offrono i loro 53 deputati, pur di entrare in maggioranza e difendere il Green Deal, se pur con flessibilità, mandano a dire. A patto di non condividere la coalizione con l’ECR, però, anche se non è chiaro se la pregiudiziale riguardi pure la sola FDI. Chi preferire quindi? Giorgia o i Verdi? Forse tutti e due, con l’ultima parola che spetterà prevedibilmente alla presidente in pectore. Una volta selezionato il candidato per la carica regina, le altre nomine dovrebbero andare facilmente a dama, con il socialista portoghese Antonio Costa favorito per presiedere il Consiglio Europeo e i Liberali che dovrebbero occupare la casella di Alto Rappresentante per la Politica Estera (Kallas? De Croo?), mentre alla presidenza del Parlamento Europeo Roberta Metsola potrebbe iniziare la solita staffetta con i Socialisti.
Non sfugge però a nessuno che, nelle more delle trattative per le nomine, i temi sul piatto degli accordi includano il programma di legislatura. Cosa intende fare Ursula Von der Leyen nei prossimi cinque anni, se sarà confermata alla presidenza? Come intende guidare la Commissione, tra vagiti di difesa comune, guerre alle porte, tensioni economico-sociali e una transizione ecologica le cui modalità sono messe sempre più in discussione? Con lo spettro politico tendente maggiormente verso destra, alcuni dossier saranno inevitabilmente rivalutati. Lo stesso PPE ha vinto le elezioni al termine di una campagna elettorale in cui ha adottato posizioni sensibilmente rigide sull’immigrazione e aperte ad una revisione del Green Deal, ivi inclusa la direttiva sullo stop all’immatricolazione delle automobili a motore termico nel 2035, mentre gli agricoltori avevano già ottenuto notevoli concessioni con le manifestazioni di pochi mesi fa. A urne chiuse la Commissione in scadenza ha presentato la proposta di dazi fino al 48% sull’importazione di auto elettriche cinesi, a seguito dell’indagine che ha riscontrato numerose pratiche sleali delle istituzioni di Pechino a favore delle proprie aziende, a dimostrazione di un nuovo orientamento, più attento alle ragioni dell’industria europea, pur a discapito degli ambiziosi obiettivi ambientali. Su questi e altri temi non ci sarà da stupirsi se si verificheranno maggioranze variabili in Parlamento durante l’approvazione dei provvedimenti, come già del resto avvenuto nell’ultima parte della passata legislatura. Potrebbero quindi acquisire un importante ruolo i Conservatori, in appoggio al PPE e ai Liberali, e finanche il gruppo Identità e Democrazia potrebbe aggiungere i suoi voti. Si tratterà prevedibilmente di mantenere complicati equilibri, ben sapendo che, se da una parte difficilmente l’UE può permettersi di sconfessare principi cardine e politiche consolidate, su cui peraltro la presidente in carica ha abbondantemente messo la faccia solo poco tempo fa, dall’altra le istituzioni comunitarie non possono correre il rischio di alienarsi ulteriormente i propri popoli, a prezzo di consegnare il continente a sovranisti e populisti, con tutto quel che ne conseguirebbe. I partiti di destra, sommati insieme, costituiscono ben oltre il 20% degli eletti, se si considerano anche le formazioni non (ancora?) affiliate ai due principali gruppi, come l’ungherese Fidesz di Viktor Orban e la già citata AFD, appena esclusa (per quanto?) da ID. Oltre agli exploit di FDI, RN e AFD, e senza dimenticare il polacco PIS, sono stati grandi protagonisti in queste elezioni europee anche i nazionalisti olandesi di Wilders, e soprattutto l’estrema destra austriaca del FPO, volata al 30% e pronta a confermarsi primo partito a Vienna nelle prossime legislative d’autunno. Un certo settarismo, rivalità personali, ma ancor più alcune pesanti divergenze esistenti in politica internazionale, in particolare nell’atteggiamento verso la Russia, impediscono tuttavia la costituzione di un blocco unico, e perfino una proficua e ampia collaborazione tra essi. Il cordone sanitario imposto a tali gruppi dall’establishment europeo in questi ultimi anni rischia però di risultare anacronistico, quando alcuni di essi giungono alle più alte responsabilità di governo in diverse capitali, da Roma ad Amsterdam, e forse domani a Parigi e Vienna, per non parlare di Varsavia e Budapest. Naturalmente la contaminazione è reciproca, e così come i partiti tradizionali sono costretti a far in parte proprie le tematiche propagandate dai nazional-sovranisti, questi ultimi moderano i toni, ammorbidiscono le proposte e partecipano alla grande arena negoziale che è l’Unione Europea. Giorgia Meloni, se unirà i suoi voti a quelli di Socialisti e Liberali in occasione della probabile elezione di Von der Leyen, spaccando il gruppo ECR, di fatto sconfesserà la promessa elettorale di non partecipare a maggioranze insieme ad essi, anche se farà certamente in modo di mimetizzare tale decisione.
Qualunque sarà la composizione della maggioranza a Bruxelles e chiunque ricoprirà la carica di Presidente della Commissione, l’Unione Europea avvierà la prossima legislatura in condizioni di relativa debolezza. Alla grave instabilità generata dalla guerra in Ucraina e dalle crisi in Medio Oriente, e alle impegnative sfide per il nostro sistema socio-economico rappresentate dalla crescente assertività cinese, dall’integrazione di centinaia di migliaia di immigrati ogni anno e dalle trasformazioni imposte dalle transizioni digitale ed ecologica, si aggiunge ulteriore dissonanza tra le forze politiche prevalenti nei diversi stati, con i due principali paesi che vedono avanzare partiti di estrema destra o comunque animati da desideri di contestazione del consensus brussellese. In un tal scenario, che potrà risultare perfino più complicato dopo le elezioni americane di novembre, sarà ancor più difficile per la classe dirigente europea tutta riuscire a tenere la barra dritta, e ancor più arduo risulterà portare a termine progetti di riforma della governance comunitaria, come quelli su mercato unico, unione bancaria, eurobond, armonizzazione fiscale e difesa comune. Anche le scelte sull’allargamento dell’Unione ai Balcani Occidentali, che non potranno essere ancor lungamente procrastinate, metteranno a dura prova la capacità dell’UE di assumere un ruolo geopolitico, senza dimenticare le aspirazioni all’ingresso da parte di Kiev e quel che accade in Georgia. Su diversi dossier aperti pende poi l’annosa questione del sistema di voto del Consiglio dei Ministri, dove la permanenza, in taluni casi e in particolare sulla politica estera e sull’approvazione del bilancio comunitario pluriennale, del voto all’unanimità, rende difficoltoso adottare le scelte e costringe a interminabili trattative tra i partners. Sembrerebbe dover rimanere tuttavia utopia, osservando la realtà attuale della politica europea, l’idea di una riforma dei trattati che elimini tale tipologia di meccanismo decisionale, a conferma della natura ibrida dell’Unione, istituzione sovranazionale, ma anche aggregazione di singoli stati che mantengono la loro sovranità, pur se attenuata. A luglio vedrà la luce il rapporto Draghi sulla competitività, che farà seguito a quello già presentato da Enrico Letta sul mercato unico europeo, ma è chiaro che la difficoltà principale in capo ai decisori politici sarà coniugare le indicazioni da essi ricevute con il responso del corpo elettorale, che, alla fine, in un modo o nell’altro, fa sentire la propria voce, e da cui non si può prescindere. Nella consapevolezza, più o meno radicata tra chi detiene ruoli di potere, che la pace sociale sul continente sia da preservare ad ogni costo, pena il rischio di veder crollare tutto il castello.
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