UE
TTIP : quando il gioco (non) vale la candela
La negoziazione della Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP), l’accordo commerciale fra Stati Uniti e Unione Europea, procede ormai da quasi due anni. Il TTIP mira ad integrare ulteriormente le prime due economie del mondo facilitando la circolazione di merci, servizi e capitali. Quanto alla libera circolazione di merci e servizi, il TTIP dovrebbe intervenire sia sulle barriere tariffarie (dazi doganali) sia su quelle non tariffarie, ossia standards, regolamenti e leggi che, sebbene poste a tutela di interessi “non-commerciali”, quali ad esempio l’ambiente, la salute o la stabilità finanziaria, possono o potrebbero ostacolare gli scambi internazionali. Considerato il livello relativamente basso dei dazi doganali applicati alle merci scambiate fra le due sponde dell’Atlantico, le barriere non tariffarie rappresentano senza dubbio l’obiettivo principale di questa parte dell’accordo. Inoltre, se per la rimozione dei dazi doganali sarà sufficiente un tratto di penna, la rimozione o la riduzione delle barriere non tariffarie comporterà un’armonizzazione ovvero un formale riconoscimento di equivalenza delle normative di settore vigenti nei due ordinamenti.
Il secondo fondamentale pilastro su cui si fonda l’edificio del TTIP è la protezione degli investimenti esteri. Sul modello di uno dei quasi tremila trattati bilaterali di protezione degli investimenti -Bilateral Investment Treaties (BITs)- il TTIP dovrebbe introdurre una serie di norme volte a proteggere gli investimenti esteri da azioni discriminatorie, arbitrarie e illegittime degli Stati ospitanti. Agli investitori stranieri dovrebbe poi essere riconosciuta la facoltà di ottenere l’enforcement di tali norme citando lo Stato ospitante dinanzi a tribunali arbitrali appositamente costituiti.
Secondo le stime della Commissione Europea, il TTIP dovrebbe nel complesso generare un incremento del PIL di 119 miliardi di Euro e costi modesti in termini di incremento di emissioni di CO2 e di ri-allocazione del fattore lavoro all’interno dei vari settori produttivi.
Malgrado i vantaggi prospettati dalla Commissione, sempre più numerose si addensano attorno al TTIP critiche e perplessità. Critiche che peraltro non provengono soltanto da partiti politici o settori della società civile tradizionalmente diffidenti nei confronti degli accordi di libero scambio, ma anche da fermi sostenitori del free trade, come Pascal Lamy, ex direttore generale dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (Financial Times, 27 Ottobre 2014, Transatlantic trade negotiators should own up to their ambition). Ed è proprio l’ampiezza e l’eterogeneità del fronte dei critici che dovrebbe indurre a valutare con più attenzione i possibili rischi dell’accordo.
Innanzitutto, ci sono i rischi legati al processo di riduzione o rimozione delle barriere non tariffarie. Sia l’armonizzazione che il reciproco riconoscimento delle rispettive normative di settore comportano, a ben vedere, l’introduzione di nuove norme attraverso un processo caratterizzato da debole o del tutto assente legittimazione democratica. Inoltre, l’esito di tale processo appare tutt’altro che scontato. In particolare, nonostante le rassicurazioni della Commissione Europea, non può escludersi che, sotto le pressioni delle varie lobbies commerciali e finanziarie attive a Bruxelles e Washington, l’armonizzazione coincida con una “diluizione” del livello di protezione degli interessi non commerciali presidiati dalle stesse dalle cd. barriere regolamentari.
La sezione destinata alla promozione degli investimenti esteri potrebbe rivelarsi altrettanto problematica. Da un’interpretazione “estensiva” delle norme poste a protezione degli investimenti esteri, infatti, potrebbe derivare un’eccessiva compressione del potere regolamentare degli Stati ospitanti. Un numero incalcolabile di regolamenti e provvedimenti amministrativi potrebbero essere impugnati sulla base delle norme in questione. Tale timore appare particolarmente fondato anche alla luce della costante tendenza dei tribunali arbitrali a favorire le istanze degli investitori. Per questa ragione, la formulazione delle norme in questione è senza dubbio un punto estremamente importante e delicato. Quanto più tali norme saranno delineate in modo preciso, tanto più ristretto sarà il margine di manovra dei tribunali arbitrali. In ogni caso, è opportuno rilevare come l’inclusione di un cd. Investment Chapter nell’accordo appaia quantomeno in dubbio al momento a causa della forte opposizione di Francia e Germania.
Al di là delle critiche legate al contenuto del TTIP, a lasciare perplessi è l’impostazione di fondo. Da un lato, il TTIP certificherebbe l’abbandono o quantomeno l’accantonamento di una visione multilaterale del commercio internazionale in favore di un approccio bilaterale tutto volto a contrastare lo strapotere commerciale della Cina, vero e proprio “convitato di pietra” dell’accordo. Dall’altro, sebbene la Commissione Europea abbia più volte presentato il TTIP come fondamentale per il rilancio della crescita economica in Europa, è lecito dubitare dei benefici in termini di incremento del PIL che l’accordo potrebbe apportare. In particolare, l’incremento del PIL in termini relativi piuttosto modesto (+0,5% per anno) andrebbe appannaggio delle economie più in salute aggravando così le diseguaglianze interne all’Unione. Permane, dunque, il sospetto che il TTIP sia, in una certa misura, un diversivo volto ad evitare o ritardare le scelte che la gravità della situazione richiederebbe, ossia un piano di investimenti pubblici su scala continentale degno di questo nome, una ristrutturazione dei debiti pubblici degli Stati Membri ed, infine, l’approdo ad una federazione degli stati europei. In un certo senso, il TTIP sembra aver sostituito il “mito dell’allargamento ad Est” che pure era stato il leitmotiv degli anni duemila. Ed è forse questo il peccato originale dell’ambizioso progetto del TTIP: invertire l’ordine delle priorità al momento sbagliato.
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