UE

Spagna alla finestra: gli amici della Merkel vincono, gli altri non perdono

27 Giugno 2016

La corsa per piegare il risultato elettorale spagnolo a questione di bassa cucina italiana è già iniziato. “Vedete, in Spagna a distanza di sei mesi dall’ultimo tentativo ancora non riescono a formare il governo! È colpa del sistema elettorale, anche stavolta nessuno ha la maggioranza”. Già, perché i dati che emergono dal voto spagnolo dicono che ancora nessuno ha la maggioranza dei seggi, e formare un governo – come già da sei mesi – non sarà per nulla facile. I risultati dicono che il Partito Popolare Europeo, erede di Aznar e alleato della Merkel, è ormai lontano da una posizione egemone e ancora di più della maggioranza assoluta, ma conquista comunque comodamente la maggioranza relativa, sfiora il 33% dei consensi, aumentando comunque sensibilmente il suo peso rispetto alle elezioni (inutili) del 2015.

A sinistra, sia la sinistra istituzionale storica del Psoe sia la nuova onde di Podemos potranno, in queste elezioni parlamentari spagnole del 2016, rivendicare tatticamente delle non-sconfitte, ma entrambi non potranno dire di aver vinto. Il Psoe, rispetto al 2015 perde circa un punto e un pugno di parlamentari, ma nel complesso tiene: almeno rispetto all’attesa di un crollo e di un sorpasso subito da Podemos. Il partito di Iglesias, a sua volta, tiene al centimetro il territorio elettorale, ma sostanzialmente sta fermo lì. Potenziale espansivo tutto da dimostrare, insomma, e per il momento non dimostrato.

E quindi, come si fanno a raggiungere i voti che servono per formare una maggioranza di governo? Come si raggiungono i 176 membri della camera che servono per formare il governo e avere una maggioranza? Ancora non lo sappiamo, e lo scopriremo presto. In una melina da prima Repubblica italiana, le voci sono quelle che immaginiamo: Mariano Rajoy, premier uscente e leader del Partito Popular, ha già detto che il governo spetta a lui. I socialisti e Podemos dicono che nessun governo sarà fatto con lui. Aria antica, chi ancora si ricorda i rimpasti e i governi balneari sa di che rituali parliamo. Resta un dato evidente: nel secondo paese dell’Europa mediterranea (il primo siamo noi), l’opinione pubblica è spaccata e una lieve prevalenza dei partiti europeisti non basta a garantire una tenuta dell’adesione al patto europeo. Tuttavia, in un paese storicamente conservatore, la volontà di cambiamento non sfonda. Un’affluenza di poco inferiore al 70% viene considerata disastrosa, e la storia è ancora da scrivere.

La domanda finale, da questo dato, piove sull’Europa e, nel nostro piccolo, sulla provincia europea chiamata Italia. I paesi “deboli” guardano all’Europa in maniera dubbiosa, perplessa, tormentata, ma la porta ancora non la chiudono. Gli equilibri che escono sembrano cristallizzati in un’immobilità forse irrazionale, e un semestre di non-governo finisce con il non cambiare gli equilibri. Da noi come sarebbe? Non lo sappiamo, i prossimi appuntamenti ce lo diranno. Intanto, da Madrid e da Barcellona arriva una chiamata forte: noi stiamo alla finestra, i leader europei ci convincano a scendere in strada e a camminare con loro. La questione, insomma, non riguarda il sistema elettorale. Non quello spagnolo, men che mai quello italiano. Perché la questione non riguarda primariamente le regole, ma la volontà politica di un paese e di un popolo. Giusto ieri ce l’hanno detto i sudditi del Regno Unito, e non dovremmo archiviarli con tanta fretta.

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