UE
Rinascita aree rurali. Qualcuno ci crede
In Europa le aree interne o rurali costituiscono metà del territorio dell’Unione, eppure vi abita solo il 20 per cento dei cittadini comunitari. Da decenni, praticamente da quando esiste, l’Europa ha cercato un equilibrio tra le politiche di sviluppo destinate alle città e in generale ai centri della conoscenza e del potere e le politiche di supporto alle aree interne. La polarizzazione della frattura sociale centro periferia e l’accelerazione dello spopolamento delle aree interne a favore delle città avvenuta negli ultimi tre decenni paiono indicare una sconfitta di questa linea. Per quanti siano stati e continuino ad essere in termini quantitativi e qualitativi gli investimenti in ciascuno dei cinque programmi che costituiscono i fondi strutturali dell’Unione, la direzione delle zone rurali, montane e interne sembra segnata: calo demografico, riduzione dei servizi pubblici, trasferimento dei centri di potere, abbandono delle imprese, fuga dei giovani. Un ciclo perverso innescato in nome dell’efficienza che drena risorse economiche, culturali, e umane alle zone periferiche per portarle alle città. In questo quadro ci si chiede se non sia meglio abbandonare del tutto le aree diventate marginali e concentrarsi sul funzionamento delle città che di problemi ne hanno da vendere, ad ogni latitudine del continente. Eppure, ci sono molte persone, anche molto giovani e non solo politici o funzionari pubblici, sicure che il futuro possa stare dalla parte delle piccole città, delle campagne, delle zone rurali e che le nuove tecnologie aiuteranno a rimarginare le ferite. Tra questi, Alessandro Da Rold è diventato una sorta di attivista, animatore e accorato sostenitore di un rinascimento delle zone rurali. Lo scorso anno ha fondato lo European Smart Villages Forum e non si ferma un attimo nel mettere insieme amministratori locali e politici di livello europeo perché “i problemi vanno a braccetto, ma anche le soluzioni”. Lo abbiamo incontrato a Bruxelles dove vive e lavora da ormai sei anni e gli abbiamo chiesto di rispondere a qualche domanda.
1. C’è molta enfasi intorno alle aree rurali, come le definisce la Commissione europea, cioè le zone distanti dai grandi agglomerati urbani. Perché?
Le cosiddette aree rurali e remote compongono poco più del 50 per cento del territorio dell’Unione Europea, e sono la casa di più di 80 milioni di cittadini europei, circa il 20 per cento dell’intera popolazione del continente. Partendo da questo presupposto, è evidente che la Politica (quella con la P maiuscola) debba tenere in considerazione tali territori, cosa che purtroppo è stata fatta in modo parziale e poco costante negli scorsi decenni. La pandemia ha interrotto il trend che vede l’abbandono delle aree remote per una vita nelle grandi città: di fronte a una scelta basata sulle stesse condizioni, una parte importante dei cittadini europei preferisce svegliarsi con la vista sulle Dolomiti, rispetto a passare le ore nel traffico milanese.
Finalmente, dopo un lavoro importante di “awareness-raising”, le istituzioni europee hanno deciso di focalizzarsi su questi temi, sviluppando un piano che riporti le aree remore e rurali al centro, con investimenti e servizi che non lascino indietro nessuno. L’idea di base è quella di lasciare al cittadino la scelta su dove vivere e crescere la propria famiglia, non che le condizioni impongano la scelta obbligata di doversi spostare in città per seguire un certo tipo di carriera.
Per questo motivo, insieme a diversi politici di alto livello come l’ex Commissaria Europea e ex Vice-Primo Ministro Sloveno Violeta Bulc, nel 2021 ho fondato lo European Smart Villages Forum. Tale iniziativa, che vuole diventare un fiore all’occhiello per lo sviluppo di partnership pubblico-private, mira ad essere l’entità Europea di contatto tra le amministrazioni locali e le grandi istituzioni e compagnie Europee, per lo sviluppo di villaggi intelligenti pilota. Un’iniziativa ambiziosa, ma che conta già il supporto e l’appoggio della Commissione Europea e della Presidenza del Consiglio Europeo.
2. Quali sono i principali investimenti previsti a livello europeo e a quanto ammontano?
Nel 2021 la Commissione Europea ha lanciato ‘La visione di lungo periodo per le aree rurali’, un’iniziativa che mira a rendere le aree rurali e remote ‘più forti, connesse, resilienti e prospere entro il 2040’. Tale piano, senza dubbio molto ambizioso, prevede di investire pesantemente sulle realtà non urbane, con budget di decine di miliardi di euro disponibili per lo sviluppo di questi territori. Ci sono inoltre vari segmenti di fondi europei e nazionali che possono essere utilizzati secondo bandi, per lo sviluppo delle aree remote. Ad esempio, all’interno del CAP (Common Agricultural Policy) esistono diverse sezioni determinanti per lo sviluppo digitale dell’agricoltura, una delle fonti primarie di profitto per le persone che vivono in aree rurali.
Tuttavia, nonostante i fondi esistano e siano ingenti, per accedervi risulta necessaria un’ importante conoscenza del sistema dei bandi di assegnazione di tali fondi. Spesso i comuni non sono equipaggiati e professionalizzati su queste tematiche, e le aree rurali in Italia risultano essere una delle nazioni che meno applica per fondi europei.
3. Il XXI è stato ribattezzato il secolo delle città. Ma per quanto offrano maggiori opportunità in termini di lavoro, salute e sociali, senza contare quelle culturali, le città europee hanno ancora molti problemi. Ha ancora senso investire nelle zone periferiche, montane? Non sarebbe più importante risolvere i crescenti problemi delle città?
Partiamo da un presupposto: in Europa si vive generalmente bene, e la qualità della vità è alta sia nei conglomerati urbani che nelle zone periferiche, soprattutto se comparate con altre realtà simili in continenti diversi. Ad oggi è un dato di fatto: le medie e grandi città offrono delle opportunità differenti per il cittadino europeo. La domanda pero’ sorge spontanea: la differenza di opportunità è intrinseca al tipo di territorio nel quale voglio vivere? Ovvero, necessariamente come cittadino europeo avrò meno opportunità perché vivo in montagna? Oppure la differenza di opportunità è data da diversi investimenti e attenzioni verso le aree periferiche e remote?
Credo che una risposta ci sia stata data dall’avvento della pandemia in Europa: il cittadino europeo, se messo nelle condizioni, preferisce spostarsi nelle aree meno popolate. Questo per tutta una serie di motivi, dettati dalla qualità della vita delle aree remote (inclusa la montagna) che fanno vivere meglio l’uomo. Su questo punto, secondo me, dovremmo impostare la nostra politica di sviluppo delle aree remote, che ricordo sono più dell’80% del territorio europeo: sviluppiamole dal punto di vista tecnologico, dei servizi e dei mezzi di trasporto, e lasciamo ai cittadini la scelta su dove basare le loro radici. Ho l’impressione che saremmo sorpresi dal risultato.
4. Ancora oggi il flusso di persone, soprattutto giovani e soprattuto laureati, lascia le campagne per trasferirsi in città, lei stesso ha fatto questo percorso, da Belluno a Bruxelles. Forse bisognerebbe prenderne atto e mettere le risorse dove le persone vogliono stare, anziché il contrario.
Per piacere, mi dia del tu, che ho 31 anni e mi ritengo ancora “giovane”. E proprio perché giovane posso permettermi di dire che non tutti siamo uguali: ognuno ha aspirazioni, ambizioni e priorità diverse. Il mio percorso è stato dettato dalla volontà di cambiare (nel mio piccolo) il modo di fare politica, e questo mi ha portato a Bruxelles. Dei tanti amici bellunesi, pero’, la gran parte è rimasta nella cittadina, dove ha avviato carriere e messo su famiglia. È proprio a queste persone che mi riferisco quando invito la politica a “non lasciare indietro nessuno”: se non ci fosse chi decide di rimanere in loco, tali aree morirebbero. E se parliamo di Belluno, parliamo di un territorio riconosciuto internazionalmente come casa di montagne tra le più belle del mondo (n.d. Le dolomiti Bellunesi, patrimonio mondiale dell’umanità).
In fin dei conti, le persone vogliono stare dove vivono bene! Offrendo servizi e opportunità per vivere bene, alcuni decideranno nonostante tutto di vivere nelle grandi città, ma altri apprezzeranno sempre di più l’opportunità di vivere in aree poco trafficate, dove i bambini vanno a scuola in bicicletta, e il traffico non è la prima cosa nella quale ritrovarsi la mattina usciti di casa. A me sembra uno stile di vita invidiabile.
5. Veniamo all’Italia, la capacità di spesa delle amministrazioni pubbliche, in particolare al Sud e nelle zone periferiche è molto bassa. Il nostro paese dal 1989 ha ricevuto nominalmente oltre 167 miliardi di fondi strutturali ma, oltre al fatto che al termine di ogni programmazione l’Italia è in coda alla classifica dei soldi spesi, i problemi sul campo restano tutti. Forse servono meno soldi e più competenze?
Non direi che servono meno soldi, ma sicuramente mi trovo d’accordo sulla necessità di maggiori competenze. E serve una visione politica e strategica e di lungo periodo. Questa è una delle battaglie che combatto giornalmente (tra le più frustranti ma anche che più mi appassiona): il politico guarda alla realtà – e agli investimenti che ha a disposizione – sulla base di qualche anno, il suo mandato all’interno della cosa pubblica. Ed è evidente che questo comporti una parcellizzazione dei progetti, che cambiano di amministrazione in amministrazione, a seconda del colore politico. Questa è una realtà con la quale purtroppo dobbiamo fare i conti, ma che potrebbe cambiare se la classe politica (la mia speranza per il futuro) fosse meno impegnata a deridere l’avversario e più concentrata su come sviluppare il proprio territorio. In aggiunta, esistono una serie di fondi, come discusso in precedenza, che potrebbero essere raggiunti dotando le amministrazioni pubbliche di esperienze europee.
In copertina: Alessandro Da Rold e il vice presidente della Commissione europea, Margaritīs Schinas presiedono un incontro con i giovani leader europei il 21 giugno scorso
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