UE

Perché difendere Federica Mogherini

23 Febbraio 2015

L’intervista di Fabio Fazio all’Alto Rappresentante per la Politica Estera e di Sicurezza Comune Federica Mogherini (Che tempo che fa, Raitre) sembra aver rilanciato una questione su cui si dibatte (con dosi variabili di fervore e soprattutto di conoscenza tecnica) da settimane. L’ex Ministro degli Esteri, lanciata da Renzi al vertice della diplomazia dell’Unione sull’onda lunga del trionfo alle Europee di maggio, è inadeguata a ricoprire la carica di Lady Pesc? Le ironie e le facili battute si sprecano. Molti vedono nella giovane democrat romana una “miracolata” della rottamazione renziana e l’accostano polemicamente alle figure di Maria Elena Boschi, Roberta Pinotti e Marianna Madia. Donne considerate, a torto o a ragione, inadatte a reggere i Ministeri loro assegnati e frutto di un’attenta strategia di rinnovamento più estetico/cosmetico che sostanziale. Non è questa la sede in cui disquisire della bontà delle scelte del Presidente del Consiglio. Ciò che mi preme evidenziare è lo stridente gap tra la causticità delle critiche piovute su Federica Mogherini e l’usuale rozzezza delle analisi. Possibile che un Paese come il nostro, di norma disinteressato alla nostra stessa politica estera, sia improvvisamente rapito da un inatteso europeismo? Che l’italiano medio si dolga a sorpresa della mancanza di un’autentica politica estera comune e veda nell’incolpevole Mogherini la responsabile unica di tale deprecabile mancanza? Il compiacimento con cui un giornale poco tenero con il governo in carica come Libero ha sbattuto in prima pagina il presunto “commissariamento” della nostra Lady Pesc desta più di qualche legittimo sospetto. Al di là della libertà di critica, ci si aspetterebbe ogni tanto una maggiore ponderatezza nei giudizi.

Se l’Unione Europea appare oggi ancora incerta nell’espressione efficace e compiuta di una politica estera comune non è colpa di Federica Mogherini. Questo è il semplice ragionamento di base che ogni osservatore dotato di spirito critico dovrebbe compiere. Si è ironizzato per anni sull’inadeguatezza della baronessa Catherine Ashton, senza per questo andare ad indagare più a fondo le vere motivazioni del suo presunto fallimento. Un recente report del CSS (Center for Security Studies) del Politecnico Federale di Zurigo (ETH) ha analizzato l’evoluzione della figura dell’Alto Rappresentante alla luce del passaggio di consegne da Ashton a Mogherini, evidenziandone lo stentato rafforzamento e le indubbie fragilità. Quello che emerge è il ritratto di una Ashton in grado di portare a casa innegabili successi (il riavvicinamento tra Serbia e Kosovo nei Balcani, il negoziato con l’Iran sul dossier nucleare), ma altresì consapevole dei vincoli ai quali il suo ruolo ha dovuto sottostare. Vincoli che derivano dalla lettera dei Trattati e dalla indisponibilità degli Stati membri dell’Unione a comunitarizzare una materia incandescente come la politica estera. La PESC (Politica Estera e di Sicurezza Comune) era infatti definita come il “secondo pilastro” della struttura tripartita emersa con il Trattato di Maastricht del 1992: da un lato le Comunità, dall’altro la Politica Estera e la Cooperazione nell’area della Giustizia e degli Affari Interni. Definitivamente sovranazionale il primo pilastro, ancora guidati da una logica fortemente intergovernativa gli altri due. In altre parole: nell’ambito dell’auspicata politica estera comune i “signori” dei Trattati erano ancora gli Stati. Il desiderio di smussare le differenze tra le politiche estere condotte in autonomia dai singoli Membri era già emerso negli anni Settanta ed aveva trovato formalizzazione negli anni Ottanta. Si parlava all’epoca di Cooperazione Politica Europea.

In seguito alla fallita Convenzione Europea per varare una Costituzione dell’Unione e al ripiego sul trattato di Lisbona (depurato dagli elementi che più erano apparsi eccessivamente sovranazionali), si decise di sacrificare la dicitura “Ministro degli Esteri”. L’Unione Europea, dotata da quel momento di autentica personalità giuridica internazionale, avrebbe potuto contare su un proprio Alto Rappresentante che ne coordinasse efficacemente la proiezione esterna. La vecchia PESC e le relazioni esterne comunitarie (in primis, la politica commerciale comune e l’aiuto allo sviluppo) sarebbero state finalmente riunite sotto un unico ombrello: l’azione esterna dell’Unione. Della coerenza di tale azione si sarebbe occupato l’Alto Rappresentante, in virtù della sua doppia legittimazione. Si parla infatti di due “cappelli”: Alto Rappresentante (deputato a presiedere il Consiglio Affari Esteri) e Vice-Presidente della Commissione Europea. L’intento, almeno sulla carta, è chiaro: per superare lo iato esistente tra proiezione esterna dell’Unione in quanto tale (tramite la Commissione) e la condotta degli Stati (rappresentati nel Consiglio), si unifica la funzione in un unico organo. Le difficoltà sorgono proprio da tale soluzione di compromesso e i limiti affrontati dalle due Lady Pesc sono prima di tutto strutturali, evidenzia il sopracitato report.

Come può la stessa persona girare il mondo rappresentando l’Unione e partecipare allo stesso tempo efficacemente alle periodiche riunioni della Commissione? Come poteva la baronessa Ashton agire davvero da “ministro degli Esteri” dell’Unione se il suo principale problema era innanzitutto quello di dare vita ad un efficiente Servizio Diplomatico, che fungesse da braccio servente dell’Alto Rappresentante? Servizio che ha vissuto una messa a regime assai travagliata, per via delle prevedibili gelosie tra Consiglio, Commissione e Parlamento. Una politica estera comune ha bisogno di gambe su cui camminare, di menti pronte ad elaborare visioni strategiche, di spazi di manovra che non siano resi asfittici dall’indisponibilità degli Stati a cedere terreno, di tempo per essere efficacemente implementata. Crocifiggere Federica Mogherini per la sua assenza al tavolo dei negoziati con Putin significa anche sottovalutare la complessità della macchina che l’ex Ministro italiano si è trovata a gestire. Ironizzare sulla sua “assenza mediatica” denota anche la preoccupante assenza di conoscenza tecniche che vadano oltre le etichette. Il famoso numero di telefono dell’Europa, che secondo una leggenda Henry Kissinger cercava inutilmente, è stato sì installato, ma occorre garantire che la persona dall’altro capo del filo sia in grado di sollevare la cornetta.

Federica Mogherini è una donna dinamica, competente e appassionata. Diamole il tempo di lavorare. Non tanto per le sue personali prospettive di carriera, ma perché è nell’interesse di tutti noi vivere in un’Unione sempre più protagonista. Anche, e soprattutto, sul piano internazionale.

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