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Paura e delirio a Madrid

30 Dicembre 2015

Un resoconto delle prime fasi delle trattive post-elettorali nel paese di Cervantes, una fase nuova cui il giornalismo internazionale (e spagnolo in primis) ha affibbiato un nome che sa più di cartellone turistico che non di opinionismo politico: bienvenidos a Italia1. Io, che in Spagna vivo, ho provato a spiegare – ma forse dovrei dire a spiegarmi – cosa stesse succedendo nella fase post-elettorale più convulsa che la Spagna post-franchista abbia conosciuto.
Ecco cosa ho capito.

In Spagna si è votato il 20 Dicembre 2015, e non ha vinto nessuno. Ha perso il Partito Popolare (PP) – quattro milioni di voti dal 2011! – ha perso il Partito Socialista (PSOE) di Pedro Sanchez, che ha ottenuto il peggior risultato da quando, morto Franco, gli spagnoli hanno smesso di pensare con un fucile puntato contro. L’impressione che si ha, però, è che i socialisti abbiano in qualche modo perso più del PP, dati i margini di trattativa più ampi a destra che non a sinistra: il PP trova una sponda in Albert Rivera, segretario di Ciudadanos (C’), il PSOE no2.

Difatti, ormai a bocce ferme, era ben chiaro chi avrebbe detto cosa, a Madrid. Con la Moncloa – nella vulgata, il governo spagnolo – fuori portata per tutti e quattro i concorrenti principali, l’unica era sedersi intorno ad un tavolo e vedere chi riusciva meglio nel do ut des senza che la base del partito cominciasse a chiedere teste. L’ha spuntata Albert Rivera, che nella retorica post-elezioni ha giocato la carta dell’unità nazionale nell’interesse della stabilità. Il leader di C’ ha in un primo tempo offerto di astenersi, così da permettere che il PP e il PSOE mettessero in moto quella che i tedeschi hanno chiamato Große Koaliktion e gli italiani, più prosaicamente, inciucio.

In seguito ha proposto un negoziato a tre: unendo le prime due forze elettorali e la quarta, da elezioni che più che rivelare hanno taciuto sarebbe paradossalmente venuto fuori un “governone” da 243 deputati (la maggioranza assoluta al Congreso è di 176). Difficile immaginare chi avrebbe potuto avere la Presidenza, e soprattutto capire cosa realmente avrebbe potuto fare un governo del genere, in un paese la cui giovane storia democratica ha conosciuto finora il solo monopartitismo, e mai le soluzioni di compromesso che, è risaputo, hanno dato all’Italia un governo ogni sei mesi per decenni.

Congreso_de_los_Diputados_(España)_14

Queste elezioni non sono state campane a festa per nessuno dei quattro leader. Sono state campane a morto per il bipolarismo3, e le soluzioni di compromesso che generalmente si prospettano a questo punto sono di quelle che gli spagnoli non amano ingoiare, e che digeriscono molto malvolentieri. Ecco un precedente: nel settembre del 2011 Mariano Rajoy Brey, da poco insediatosi alla Moncloa con una maggioranza monstre di 186 voti, promosse una riforma dell’articolo 135 della Costituzione Spagnola: l’oggetto della riforma era l’inserimento del margine di deficit strutturale obbligatorio. A sinistra molti storsero il naso, ma alla fine l’accordo passò, e solo in cinque si astennero.

Due i socialisti – e nel caso ve lo stiate chiedendo, Sanchez non era tra questi. Mentre Zapatero giustificava il sostegno socialista con la locuzione di “enorme senso di responsabilità”, diversi movimenti convergevano dalla Plaza del Callao a Sol fino al Congreso stesso, finendo per accerchiare il centro decisionale del governo intonando un canto fortemente simbolico come “Ahora no es Tejero, son Rajoy y Zapatero4”.

È insomma facile capire come in paesi in cui il bipolarismo è così radicato, la gestione di una transizione in senso multipolare risulti molto complicata, soprattutto a chi ha il compito di “venderla” all’elettorato. Va aggiunto che, come nel 2011, anche ora l’accordo trasversale sembra più imposto dall’alto – o dall’estero – piuttosto che il risultato di una tendenza sociale. Insomma, da una parte la necessità, dall’altra il senso di inutilità del voto, se a vincere alla fine è sempre il compromesso.

Due voci autorevoli a confronto: su un editoriale dedicato agli auguri per un felice 2016, Almudena Grandes, romanziera e da sempre editorialista de El Paìs, scriveva: “Rivera lotta per la sua dubbia sopravvivenza, esigendo che Sanchez si ‘suicidi’ per il bene dei suoi nemici. Il tradimento dei propri ideali torna a chiamarsi ‘senso dello Stato’ e ‘responsabilità’, gli stessi nomi che adottano i nostri governanti quando sacrificarono i diritti degli spagnoli agli interessi degli speculatori finanziari [qui fa riferimento alla già menzionata riforma dell’art. 135, ndR]”. Sergi Esteve Rico chiosava sul El Paìs “ci sembra brutto che si mettano d’accordo, eppure li obblighiamo a farlo.”

Da qualunque parte la si veda, sono i socialisti ad avere il dovere di mover ficha, o di “fare una mossa.” Ma la nota che stride è che seppure è Sanchez stesso quello che stringe più saldamente il coltello ed ha il dovere di dirigerlo, la realtà è che lo sta stringendo saldamente dalla parte della lama.


n.B. L’elefante della stanza di cui in questo articolo non si parla è evidentemente Podèmos: del movimento di Pablo Iglèsias non volevo parlare ‘incidentalmente’, ma descriverlo più ampiamente in un altro articolo.

1. Anche soltanto questo dà l’idea di come la Spagna senta di trovarsi completamente da un’altra parte rispetto al passato]

2. [E già qui queste elezioni spagnole sembrano in qualche modo parlare italiano: “partitini” di centro-destra trovano funzione di mandato nel rappresentare l’ago della bilancia nel varo di governi che presuppongono partiti ben più grandi di loro.]

3. [L’unico bipolarismo che in Italia, a parte alcuni scossoni, ha tenuto, è stato quello britannico, e ci si chiede se sia replicabile]

4. [Antonio Tejero Molina fu il colonnello della guardia civile e principale organizzatore del colpo di Stato del 1978 che gli spagnoli tuttora ricordano come “Tejerazo”.]

[Immagini di Zaqarbal, Sfs90]

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