UE

Passi avanti nel welfare europeo, ma l’Unione sociale è tutta da costruire

11 Ottobre 2019

Colloquio con due esperti del settore: David Rinaldi della Feps e Francesco Corti dell’Università di Milano. La Commissione ha avviato le prime riforme e posto le basi per rafforzare la dimensione sociale comunitaria. Tuttavia rimangono fratture politiche, economiche e, soprattutto, un’Unione incompleta in molti aspetti cruciali

La crescente richiesta di protezione sociale seguita alla grande crisi economica ha avuto riflessi diretti sulla recente campagna elettorale per le elezioni del Parlamento europeo. In Italia, il programma di quasi tutte le formazioni politiche che hanno presentato liste per le europee conteneva riferimenti diretti o indiretti alla necessità di avere un’Europa più sociale, meno centrata sull’austerità e più impegnata sul rilancio degli investimenti. Alcuni partiti hanno addirittura proposto la costruzione di veri e propri strumenti di welfare comunitario, come il sussidio di disoccupazione e il salario minimo garantito a livello europeo.

In varie gradazioni, il tema ha accomunato non solo le formazioni di sinistra e centro-sinistra, ma anche Fratelli d’Italia, +Europa, i Verdi e il Movimento 5 Stelle. A livello comunitario, l’unica famiglia politica nettamente contraria allo sviluppo dei diritti sociali rimane quella dei Conservatori e riformisti. Perfino i liberali dell’Alde (oggi Renew Europe) si sono professati convinti che accelerare sulle politiche sociali sarebbe necessario per ridurre il gap di genere e i Popolari (PPE) per aiutare le famiglie.

Non sorprende, dunque, che Ursula von der Leyen il 17 luglio nel suo primo discorso davanti all’assemblea di Strasburgo subito dopo l’elezione a presidente della Commissione europea, abbia menzionato proprio il «salario minimo sufficiente a condurre una vita dignitosa», come una delle misure che l’Unione europea dovrà impegnarsi a realizzare. Del resto anche il Ppe da cui il ministro tedesco proviene e che esprime l’attuale presidente della Commissione, il lussemburghese Jeane-Claude Juncker, ha cominciato a percepire che la crisi di consensi di cui soffre l’Europa in tutto il continente è anche e soprattutto una crisi sociale. Una crisi che scarica sugli individui e sui soggetti più deboli le contraddizioni di un processo di integrazione largamente incompleto e deficitario. Per tentare di recuperare il tempo perso, nell’aprile 2017 la Commissione Juncker ha proposto il Pilastro Europeo dei Diritti Sociali (Peds). Promulgato da tutti i capi di stato Europei rimane tuttavia per molti ancora un piccolo mistero e non ha sin ora generato molto dibattito a livello nazionale. In teoria, dovrebbe garantire pari opportunità nell’accesso al mercato del lavoro, condizioni di lavoro eque e strumenti di protezione sociale, ma non è facile capire quali saranno le conseguenze di questo piano al di là dei 20 valori di principio. Avrà un impatto concreto nella vita dei cittadini europei? Servirà come agenda politica per rilanciare le politiche sociali a livello europeo?

Siamo partiti da queste domande per una ricognizione a puntate per presentare alcuni dei recenti sviluppi di politica europea nel campo delle politiche sociali, con l’idea di raccontare la parte dell’Europa che ha a cuore le vicissitudini dei cittadini, verificare cosa è stato fatto e cosa rimane da fare all’interno dei venti principi del Pilastro Sociale, quali sono gli ostacoli che ne impediscono l’implementazione a livello nazionale e seguire l’iter legislativo delle iniziative Ue lanciate nel quadro del PEDS.

Il pilastro sociale tra aspettative e realtà. Quali sono i nuovi diritti? Qual è il valore politico? Ne abbiamo parlato con David Rinaldi, direttore degli studi e politiche pubbliche presso la FEPS e Francesco Corti, ricercatore dell’Università degli Studi di Milano e membro del progetto REScUE (Reconciling Economic and Social Europe).

La crisi ha aumentato la richiesta di protezione

«La crisi dell’Europa sociale ha anche come risultato l’emergere di nuovi conflitti e l’approfondirsi di altri già esistenti», ricorda Corti. «Le tensioni tra destra e sinistra e quelle tra sostenitori di maggiore integrazione europea e invece partiti euroscettici. Accanto alle fratture ‘storiche’ ne sono emerse altre due nell’ultimo decennio. Quella tra paesi creditori e paesi debitori, pensiamo ad esempio allo scontro tra Italia e Germania, e tra paesi dell’est, a bassi salari, e quelli dell’ovest, che subiscono spesso dai primi concorrenza sleale, cosiddetto social dumping».

«La prima cosa da non confondere», spiega Rinaldi a Gli Stati Generali, «è cosa si intende per Europa sociale. Spesso si usa questa espressione pensando a uno spostamento di poteri e competenze dagli stati nazionali all’UE in materia di politiche sociali, ma non è questo il caso, almeno non nel prossimo futuro.».

«Per Europa sociale intendiamo politiche più attente alle questioni sociali, senza necessariamente vedere l’UE come un prestatore di servizi e di stato sociale», afferma Rinaldi, «ma dobbiamo almeno assicurarci che le politiche europee siano di supporto degli stati sociali nei diversi paesi europei e che l’Unione consideri l’impatto sociale delle diverse misure UE, da quelle macroeconomiche a quelle legate al mercato unico digitale o all’unione energetica. L’Unione Europea ha diverse modalità per migliorare il suo impatto sociale, lo può fare attraverso: la legislazione propria, cosiddetta hard law che poi deve essere ratificata dagli stati membri, oppure soluzioni più soft come l’individuazione e il miglioramento degli standard, capaci anch’essi si assicurare una convergenza verso l’alto nei diritti sociali. L’Unione ha anche un ruolo decisivo nel coordinamento delle politiche di welfare per fare in modo che chi si sposta verso un altro stato membro veda riconosciuti i propri diritti e abbia facilmente accesso a tutti i servizi che ne derivano, può inoltre finanziare e supportare le politiche nazionali in materie sociali».

Gli effetti sui contratti di lavoro

Nonostante la mancanza di una valenza giuridica per i 20 principi del Pilastro Sociale, il direttore Rinaldi fa presente che, «dal Pilastro sociale sono scaturite iniziative legislative concrete per aggiornare la direttiva sulle condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili e sulla direttiva per il bilanciamento vita-lavoro. Nomi oscuri di dossier europei che hanno però a che vedere con questioni molto rilevanti: definire cosa deve essere incluso in ogni contratto di lavoro: periodo di prova, minimi orari settimanali, preavvisi, training, etc. Sono state occasioni per riflettere su come ampliare i diritti, sia nel senso di migliorarli sia nel senso di espanderli a nuove categorie di lavoratori. Anche i contratti a zero ore sono stati eliminati. La direttiva per il bilanciamento vita-lavoro, principalmente focalizzata su lavoratori con figli, aumenta il congedo di paternità e consente miglioramenti per chi lavora ‘da casa’ e in modo flessibile. Era stata lanciata pure un’iniziativa per espandere la protezione sociale a tutte le nuove categorie di lavoro, indipendentemente dal tipo di contratto, ma le forze politiche conservatrici hanno avuto la meglio e la discussione si è arenata».

«L’adozione di queste misure», riprende Francesco Corti, «rappresenta indubbiamente un passo nella direzione di un rafforzamento della dimensione sociale dell’Ue. Per esempio, l’introduzione di un minimo di 10 giorni di congedo di paternità pagato al momento della nascita del figlio, un’assicurazione di almeno due mesi di congedi lavorativi per i padri nei primi anni di vita dei propri figli e cinque giorni all’anno di congedo pagato per i lavoratori che devono assistere un parente malato e bisognoso di cure sono novità che, con riferimento all’Italia, avranno un impatto concreto nella vita di tutti i cittadini. Lo stesso può dirsi per l’introduzione, a favore di tutte le persone che lavorano almeno 12 ore al mese (dunque anche di alcuni lavoratori con contratti fortemente atipici), del limite ai periodi di prova in un nuovo posto di lavoro a non più di sei mesi, del divieto di clausole che impongano l’esclusività del rapporto di lavoro privato con un solo datore, della gratuità della formazione obbligatoria sul posto di lavoro e dell’obbligo di chiarire tutte le condizioni di lavoro a partire dal primo giorno della prestazione. Infine, l’introduzione del principio di uguale retribuzione per stesso lavoro nello stesso luogo, insieme all’istituzione di un’Autorità Europea per il lavoro, rappresentano un passo in avanti importante per la tutela dei cosiddetti lavoratori mobili».

«Alla luce di queste novità possiamo dire che alcuni passi in avanti in direzione del rilancio dell’Europa sociale sono stati compiuti», dice Corti. «Certo molto di più poteva essere fatto. Tuttavia, l’adozione di queste iniziative mostra che il motore dell’Europa sociale è ripartito dopo anni di austerità».

Se il Pilastro sociale ha aperto la strada a una nuova agenda europea delle politiche sociali e del lavoro, resta da capire se e come la nuova Commissione e il nuovo Parlamento saranno in grado di proseguire su questa strada.

Il freno dei partiti

I nodi sono tutti politici e di visione, sottolinea David Rinaldi e la differenza tra le forze progressiste e quelle conservatrici la si può vedere proprio nell’interpretazione del Pilastro europeo dei diritti sociali. «Chi dice che non c’è differenza tra destra e sinistra sbaglia. Per i liberali di centro destra l’aver sancito 20 principi sociali a livello europeo è un successo e un punto di arrivo. Per la famiglia social-democratica invece il Pilastro rappresenta un successo perché dà la possibilità di strutturare un piano d’azione. In altre parole, è un punto di partenza, un architrave politico grazie al quale dovrebbe essere possibile portare avanti iniziative concrete per trasformare i diritti formali in diritti sostanziali. La speranza è che questa nuova Commissione, frutto di una coalizione in cui a capo rimangono i partiti di centro destra, voglia dare continuità all’agenda politica sociale apertasi col Pilastro. Il discorso di Ursula von der Leyen al Parlamento aveva aperto speranze in merito, ma la designazione dei portafogli lascia molti dubbi: i commissari designati Gentiloni a “economy” e quello Lussemburghese Schmit per “jobs” sono entrambi gerarchicamente sottoposti al vice presidente Dombrovskis, della famiglia del Ppe. Senza poi scordarci che ‘jobs’ è di per sé molto limitante come agenda sociale».

Quello che probabilmente rimarrà, oltre alle iniziative legislative menzionate, è il contributo che il Pilastro sociale ha offerto per migliorare il coordinamento delle politiche economiche europee. «La sfida principale», sottolinea ancora Rinaldi, «è quella di riallineare gli obiettivi di politica economica con quelli sociali. L’istituzione di uno Scoreboard Sociale per il monitoraggio della povertà e dell’esclusione sociale, dei tassi di disoccupazione, compresa quella giovanile e le divergenze di genere, delle diseguaglianze, del tasso di abbandono scolastico e dell’accesso alla sanità, all’interno del processo di coordinamento delle politiche economiche, il cosiddetto Semestre Europeo, rappresenta un cambiamento più rilevante di quanto si creda. Ha dato modo e possibilità di ‘socializzare’ il Semestre e le raccomandazioni che la Commissione invia ai paesi membri ogni anno».

Come documentato nei recenti studi di Corti per l’Osservatorio Sociale Europeo e per FEPS, grazie all’introduzione del Pilastro Sociale e del nuovo Social Scoreboard, le raccomandazioni su investimenti sociali e protezione sociale inviate dalla Commissione agli stati membri sono aumentate passando dal 50 per cento del totale delle raccomandazioni in ambito di politiche del lavoro e sociali nel 2011 al 96 per cento nel 2019.

Nonostante la Commissione abbia significativamente riorientato il suo approccio alle politiche sociali e del lavoro, chiedendo agli stati membri di attuare ambiziose riforme sociali, restano tuttavia ancora i nodi sulla volontà o capacità di trovare ingenti risorse per politiche di protezione sociale in un contesto condizionato da fratture politiche ed economiche profonde. «Nella sostanza», sottolinea Corti, «benché adesso la Commissione europea chieda agli stati membri di avviare riforme ambiziose, persiste la domanda sulle risorse necessarie ad attuarle. In tal senso il problema è duplice. Da un lato, gli stati membri sono ancora soggetti ai vincoli di bilancio che ne limitato le capacità di investimento. Dall’altro l’Ue non dispone di una capacità fiscale tale da supportare gli stati membri per l’implementazione delle riforme che essa stessa chiede. L’ambizione della prossima Commissione dovrà essere quindi quella di superare questi due scogli così da dare piena implementazione a una vera e propria Unione Sociale Europea».

Ostacoli strettamente legati alla mancanza di un’unione fiscale tra i paesi membri che sembrano insormontabili. Almeno a trattati vigenti.

Foto di copertina: i presidenti del Parlamento, della Commissione e del Consiglio dell’Unione europea il 17 novembre 2017 dopo la firma del Pilastro dei diritti sociali

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