Finanza
Lo Spread è tornato. Per restare
Sembrava che la BCE lo avesse “ibernato” definitivamente nel suo bilancio. Ed invece, nelle ultime settimane lo spread torna a mostrarsi minaccioso: il differenziale di rendimento tra i titoli di Stato italiani e tedeschi sui 10 anni è salito di oltre 60 punti in 60 giorni; mentre l’attesa dei mercati per il referendum del 4 dicembre è cresciuta, la BCE ha lasciato intendere di voler affrontare un eventuale attacco speculativo e questo ha calmierato il trend di crescita. Per ora. Ma se il mercato azzecca le sue previsioni ed il NO prevale, c’è da attendersi un’ulteriore impennata, scudo o non scudo BCE. Ripetute prese di posizione della stampa internazionale fanno capire che la finanza è più interessata alla stabilità politica che al dibattito sul merito delle riforme. E che l’ipotesi di l’Italexit è tutt’altro che fuori dai radar. Nel frattempo Monte dei Paschi prosegue la sua partita per la sopravvivenza tra bail-in e risoluzione, mentre l’euroburocrazia sta per tornare in pressing sui 5 miliardi di “buco” nella manovra di bilancio.
Eppure la salita dei tassi di interesse in Europa non è una novità degli ultimi giorni, ma viene da lontano. Ed ha ragioni strutturali. Innanzitutto l’inflazione europea sta salendo. Di poco, in maniera disomogenea e non in linea con le aspettative della BCE, ma sta salendo. Da aprile 2016 il trend dei prezzi in Europa si è invertito con decisione: i prezzi in Germania sono saliti di 1 punto percentuale, in Francia di 0,8%, mentre la Spagna è uscita da una deflazione tremenda passando dal -1,1% allo 0,7%. Anche la deflazione italiana è migliorata un poco scendendo dallo -0,4% allo -0,1% (cfr. Figura 1).
Figura 1
Di conseguenza la componente dei rendimenti che remunera il rischio di rialzo dei prezzi è andata lentamente crescendo per oltre 6 mesi, spingendo i tassi di interesse sui titoli europei al rialzo, nessuno escluso.
Un secondo fattore che coinvolge l’intera Eurozona riguarda le voci sulla fine del Quantitative Easing. A partire dalla fine di settembre si nota un grande “scalino” verso l’alto in tutte le serie storiche dei rendimenti dei titoli di Stato europei (cfr. Figura 2); non a caso, in quei giorni cominciavano a circolare rumors sul graduale ritiro dello stimolo monetario. Se la BCE smette di acquistare titoli governativi, sparisce una fetta di domanda sicura e prevedibile che il mercato vorrà assorbire solo se verranno offerti tassi più alti. Nonostante le smentite ufficiali, quel gradino nei grafici dei rendimenti non è rientrato; se ne deduce che il mercato sta guardando oltre le rassicurazioni di Draghi sul breve termine. Pare scontato che l’8 dicembre il Presidente BCE guadagni altri 6 mesi di prolungamento del programma ma appare chiaro anche che il mercato consideri inevitabile una riduzione (il “tapering”) dell’acquisto di titoli da parte della BCE nella seconda metà del 2017.
Quindi lo spread non è del tutto “colpa” nostra. Dal 30 settembre il decennale italiano è salito sì di circa 80 punti base, ma anche il Bonos spagnolo ha preso quasi 70 punti. Persino l’inossidabile Bund tedesco ha subito un rialzo di oltre 30 punti base. Inoltre l’andamento di tutti i titoli appare significativamente correlato suffragando l’idea della presenza di fattori comuni che stanno guidando il rialzo.
Figura 2
Certo, se andiamo a vedere cosa sta succedendo ai rendimenti reali (cioè ai tassi di interesse al netto dell’inflazione, cfr. Figura 3) la situazione si fa paradossale. Infatti in Germania i tassi stanno sì salendo ma con più moderazione rispetto al mercato secondario italiano mentre l’inflazione è cresciuta significativamente; dunque i tassi reali sono diventati negativi, quasi al -1%!
Figura 3
Questo implica che investire in Bund è più costoso di quello che sembra, dato che l’investitore dovrà subire non solo l’eventuale riduzione del capitale investito corrispondente al rendimento nominale negativo, ma anche l’effetto di erosione dovuto alla più alta inflazione. Specularmente questo effetto di svalutazione del valore nominale dei titoli avvantaggia la controparte debitrice; cioè il governo tedesco. Quindi non solo il debito teutonico beneficia dei tassi nominali negativi sui Bund visibili sulle quotazioni del mercato secondario fino ad oltre gli 8 anni, ma riceve anche un aiutino non sgradito dall’inflazione. Non sorprende dunque che il rapporto Debito / PIL tedesco sia l’unico in diminuzione e probabilmente quest’anno scenderà sotto la soglia simbolica del 70%.
In Italia ci sono ovviamente tassi di interesse nominali molto maggiori (oramai il decennale è stabilmente sopra il 2%) e stavolta l’inflazione rema contro. Quando addirittura il tasso di inflazione è negativo (come nel caso dello -0,1% ad ottobre 2016) infatti si somma al tasso nominale e rende il tasso reale più elevato. Nessuno sconto dunque per il Tesoro italiano, ma casomai un aggravio del peso del debito che in termini reali costa quanto nel 2012 (cfr. di nuovo Figura 3). Di nuovo ci troviamo di fronte ad una ripartizione dei benefici della politica monetaria BCE che privilegia i Paesi core e che lascia dell’amaro in bocca. Se consideriamo che gran parte del risparmio ottenuto dalla discesa dei tassi di interesse (20 miliardi di € circa) è stato già “restituito” indietro attraverso le perdite sui contratti derivati sottoscritti dal Tesoro (21,2 miliardi a fine 2015 – cfr. Figura 4) ce hanno un valore di mercato negativo proprio per via della discesa dei tassi di interesse, l’effetto complessivo del QE per l’Italia rischia di essere meno positivo di quanto si è sempre pensato.
Figura 4
In definitiva lo spread tra Italia e Germania è cresciuto perché le condizioni strutturali delle due economie continuano a divergere ed gli operatori si sono accorti che l’assicurazione data dalla presenza sui mercati della BCE ha una scadenza in un futuro prossimo.
Questo post-referendum passerà, nonostante i soliti proclami di apocalisse. Qualunque sia il risultato, i mercati se ne faranno presto una ragione. Ma lo spread è destinato a restare. La BCE potrà smussare picchi di crescita bruschi dei rendimenti dei titoli governativi italiani, ma il Quantitative Easing non è concepito per gestire la dinamica dello spread. Il meccanismo di acquisto è stato concepito ai fini del controllo dell’inflazione ed è a tutt’oggi rigidamente ancorato al criterio della capital key che impone di acquistare innanzitutto i titoli dei Paesi di maggior peso politico (cioè Germania e Francia).
Il mezzo più idoneo al controllo della speculazione sul debito rimangono le OMT (Outright Monetary Transactions), cioè il famigerato scudo “anti-spread” annunciato da Draghi nell’agosto 2012 con la celebre frase “whatever it takes to save the Euro”. Infatti la possibilità teorica di acquisti illimitati di titoli da parte della banca centrale rende perdente per definizione qualsiasi tentativo di speculazione al ribasso. Peccato che l’accesso alle OMT sia condizionato dall’inoltro di una richiesta formale di assistenza finanziaria all’ESM, il Fondo Salva-Stati; la storia ci dice che quando un finanziamento a lungo termine del Fondo è stato accordato (prima nel 2011 l’Irlanda, poi la Grecia ed il Portogallo nel 2012 ed infine nel 2013 Cipro), si è portato dietro delle condizioni di aggiustamento fiscale durissime e l’imposizione della supervisione della Troika. Tutto questo rende la possibilità di attivazione delle OMT un evento remoto, che presuppone un’evoluzione estrema dello spread.
L’esperienza passata ci dice un rialzo prolungato nei tassi di interesse nominali fa aumentare rapidamente il costo di rifinanziamento del debito ed induce la riduzione dei prestiti delle banche al settore privato, per via dell’aumento del rischio-Paese e dell’effetto spiazzamento dei titoli di Stato, che diventano più appetibili come investimento finanziario rispetto al credito verso l’economia reale. I timidi progressi nel superamento del credit crunch registrati durante la debole ripresa del 2015-2016 subiranno sicuramente uno stop improvviso. Al di là del rischio politico dunque, la crisi bancaria e la stagnazione economica non spariranno, indebolendo le aspettative di una permanenza a lungo termine dell’Italia nell’Eurozona.
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