UE
Lo spettro dello spread ora viene da Francoforte
Non è ufficiale (per contenere il più possibile la reazione dei mercati), ma il QE exit, cioè la fine del programma di acquisto titoli che da marzo 2015 ha immesso nei mercati dell’Eurozona oltre 1600 miliardi di liquidità tra obbligazioni sovrane e sovra-nazionali è alle porte. Fonti vicine alle BCE fanno trapelare che forse l’annuncio arriverà già nel meeting dei banchieri centrali di Jackson Hole in agenda il prossimo 7 settembre. Secondo gli analisti Francoforte cercherà di chiudere il Quantitative Easing minimizzando gli scossoni; un’“eutanasia finanziaria” che partirà con una riduzione (tapering) del ritmo mensile degli acquisti di titoli di Stato di 10-20 miliardi da inizio 2018 per poi continuare a scendere gradualmente fino all’interruzione del programma. Ma per quanto graduale la fine dello stimolo monetario non potrà che determinare, come sempre accade, l’aumento dei tassi di interesse, specie sulle lunghe scadenze (c.d. premio per la liquidità) in tutta l’area euro. Tanto più che una volta deciso di invertire la rotta, l’Eurotower potrebbe anche mettere mano ai tassi e avviare i rialzi (rate hikes).
Gli indicatori di mercato riflettono le aspettative degli operatori sulla prossima virata della BCE: nell’ultimo anno le curve dei rendimenti sui titoli governativi dei Paesi dell’euro sono rimbalzate verso l’alto e il differenziale tra il tasso swap a 10 anni e quello a 1 anno è raddoppiato passando da appena 0,55% all’odierno 1,2%.
Per la Germania finirà l’epoca dei tassi negativi con un ritorno alla situazione fisiologica in cui il Governo tedesco paga per prendere a prestito fondi sul mercato anziché essere pagato e usare il corrispettivo per ridurre il debito pubblico come accaduto negli ultimi anni. Grazie al suo status di asset a basso rischio il Bund continuerà comunque a trovare facilmente posto nel portafoglio degli investitori. Più complicata sarà invece la situazione per l’Italia che potrebbe sperimentare tensioni per il venir meno di quella che da marzo 2015 era una componente certa e rilevante della domanda di BTP. In poco più di due anni di QE, la Banca d’Italia – a comprare, infatti, sono le Banche Centrali Nazionali (BCN) dell’Eurozona – ha acquistato 274 miliardi di BTP ad una media mensile di quasi 10 miliardi di euro: solo nel 2016 ha rilevato sul mercato secondario un quantitativo di bond pari a quasi 1/3 delle nuove emissioni di titoli di Stato italiani. L’effetto in termini di minor costo di servizio del debito è stato dirompente: tra il 2014 e il 2015 il tasso medio delle emissioni sui titoli di Stato si è quasi dimezzato (dall’1,35% allo 0,7%) e nel 2016 ha segnato un minimo storico toccando lo 0,55%. In termini di spesa per interessi, rispetto al 2014, il risparmio cumulato del biennio 2015-2016 è stato di circa 8 miliardi: un assist non da poco per il Tesoro alle prese con un debito pubblico che lo scorso maggio ha segnato il nuovo record di 2.278,9 miliardi e con l’incessante emorragia del portafoglio derivati che negli ultimi due anni ci è costata 15 miliardi di euro, quasi il doppio degli interessi risparmiati sul debito. Grazie ai tassi bassi garantiti dal QE, l’anno scorso via XX Settembre ha potuto persino emettere 5 miliardi di Mathusalem Bond, un’obbligazione con scadenza 50 anni ad un tasso di appena il 3%. Per avere un’idea si pensi che a novembre 2011, in piena crisi del debito, l’Italia pagava più del 3% anche sulla scadenza 3 mesi!
Ora però le cose stanno per cambiare. Il rialzo dei tassi degli ultimi tempi non riflette solo i leaks degli ambienti bene informati ma anche un fatto ineludibile: il QE ha ormai quasi esaurito i titoli di Stato eligibile (cioè ammissibili per l’acquisto) di alcuni Paesi membri, Germania inclusa. Il motivo va ricercato nelle regole di ingaggio del programma che, per non favorire i Paesi più indebitati, prevedevano acquisti dei Govies in proporzione alla quota di ciascuno Stato nel capitale della BCE (capital key). E lì la Germania la fa da padrona con una partecipazione del 25,6% (riscalata sui soli Paesi dell’euro): in pratica finora più di ¼ degli acquisti di titoli sovereign ha interessato i Bund (oltre 390 miliardi di euro). Ad essere precisi, fino allo scorso marzo gli acquisti di Bund hanno addirittura superato il criterio della capital key con un’eccedenza media mensile di 700 milioni di euro; per consentire questa operatività, dati i tassi molto negativi sulla curva Bund, a gennaio 2017 è stato persino rimosso il vincolo che vietava gli acquisti di titoli con rendimento implicito inferiore al tasso sui depositi presso la BCE (-0,4%). Ma da aprile – complici i dati incoraggianti sull’andamento dell’inflazione nell’area euro – Francoforte ha dato i primi segnali della prossima chiusura dei rubinetti: il ritmo mensile degli acquisti è calato da 80 a 60 miliardi di euro (com’era stato nel primo anno di QE) e, in parallelo, gli acquisti di Bund sono stati allineati alla capital key mentre sono accelerati quelli dei Govies di altri Paesi come Francia, Italia e Spagna (v. Figure seguenti).
Questi cambiamenti nella politica degli acquisti riflettono l’imminente esaurimento di Bund disponibili dal momento che – altra regola di ingaggio del QE – Francoforte non può detenere (tramite le varie BCN) oltre il 33% di ogni singola emissione. La ratio è quella di evitare che la BCE possa avere un ruolo dirimente nelle decisioni di ristrutturazione/ridenominazione dei titoli di Stato dei Paesi membri. Anche Paesi con minore disponibilità di titoli eligible (come Portogallo, Irlanda e Finlandia) sono vicini al limite del 33% e sinora la BCE ha risolto dirottando gli acquisti (comunque marginali rispetto alle dimensioni del programma) sui Paesi che, come Italia e Francia, erano ancora largamente capienti. Da aprile la stessa strategia di sostituzione è stata applicata per fronteggiare la scarsità di Bund ammissibili, ma difficilmente si potrà andare avanti a lungo in questo modo: il debito pubblico tedesco dava, infatti, un contributo sostanziale agli acquisti. Inoltre, Francia e Italia sono rispettivamente al secondo, terzo e quarto posto della capital key, il che significa che (tralasciando qualche mese che si può guadagnare spostandosi sulle obbligazioni sovranazionali), l’unico modo per continuare a pompare liquidità nel sistema è quello di abdicare stabilmente al criterio della capital key e concentrare gli acquisti su Francia e Italia. Difficile però che la Germania lasci passare un simile sovvertimento del programma, tenuto conto che si andrebbe avanti senza più alcuna convenienza per i suoi conti pubblici e che le banche tedesche lamentano da tempo il crollo del margine da interessi. Secondo le stime delle principali banche d’affari internazionali, a politiche invariate, i Bund rimasti basteranno al più sino a fine anno. Al momento il QE exit è quindi l’alternativa più quotata. Per l’Italia significherebbe il rischio concreto di una nuova impennata dei tassi, tanto più che alla fine degli acquisti potrebbero presto seguire ulteriori tensioni collegate all’eventuale dismissione dei titoli di Stato comprati dalla Banca d’Italia nonché ai possibili rialzi dei tassi da parte della BCE. Senza contare che se dovessero passare le proposte che prevedono l’assegnazione di coefficienti di rischio ai titoli di Stato presenti nei bilanci bancari, il mercato verrebbe inondato da un eccesso di offerta di BTP con le prevedibili implicazioni in termini di inasprimento della spesa per interessi a carico del bilancio statale. Già nel 2017 il tasso medio sulle emissioni di debito è risalito allo 0,8%, segno che gli investitori crede poco allo scudo anti-spread annunciato da Draghi nell’estate 2012, anche per via delle pesanti condizionalità da rispettare in cambio della sua attivazione. Serve uno scudo autentico, un serio commitment della BCE a garanzia dell’unicità della curva dei rendimenti governativi dei Paesi dell’area euro. In questa prospettiva, a mio avviso, il segnale più credibile sarebbe la decisione di chiudere il QE senza sterilizzare gli acquisti: la BCE dovrebbe comprare i titoli di Stato dalle varie BCN (azzerando in contropartita i prestiti loro erogati durante il programma) e tenerli immobilizzati nel proprio bilancio per mettere in sicurezza le economie più fragili e mettere in campo valide misure per una ripartenza comune di tutta l’Eurozona nello spirito di una piena integrazione fra i Paesi membri. Senza un intervento del genere non è escludersi che prossimamente assisteremo a un remake del 2011.
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