Partiti e politici
L’Europa verso il voto di Giugno. Continuità o nuove maggioranze?
L’Europa che si appresta ad andare al voto il prossimo giugno per il rinnovo del Parlamento di Strasburgo si trova, forse mai come in questa circostanza, in mezzo al guado di profondi mutamenti nello scenario internazionale. L’invasione russa dell’Ucraina, perdurante da oltre due anni, il conflitto esploso lo scorso autunno a Gaza, con annesse scosse di assestamento in tutto il Medio Oriente e le crescenti tensioni con la Cina nello stretto di Taiwan hanno riportato il tema della guerra e dell’uso della forza nella politica internazionale al centro del dibattito globale. Le prossime elezioni americane di novembre, come se non bastasse, presentano il forte rischio del ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump, con le sue ben note tendenze isolazioniste e revisioniste nell’approccio al sistema internazionale liberale, del quale l’Unione Europea potrebbe rimanere l’ultimo difensore, ma senza la necessaria forza per sostenere adeguatamente le politiche multilaterali in ambito di commercio internazionale contrasto al cambiamento climatico. La campagna elettorale che sta prendendo avvio in queste settimane avrà come principale tema il ruolo dell’UE in questo scenario globale complesso e pericoloso, con le forze politiche destinate a misurarsi sulle proposte da elaborare in materia di difesa e sicurezza comune, immigrazione, competitività industriale, sicurezza degli approvvigionamenti energetici e di materie prime, agricoltura e transizione ecologica. La posta in palio è il peso nella definizione delle politiche comunitarie in tutti questi ambiti per i prossimi cinque anni, con i partiti di destra che, come già avvenne cinque anni fa, tentano l’assalto alla storica ma claudicante maggioranza di Popolari, Socialisti e Liberali. In particolare, la lotta è aperta per la guida e la composizione della Commissione, la cui Presidente, Ursula Von der Leyen, si è candidata alla riconferma, naturalmente nelle fila del PPE.
La Presidente Von der Leyen si è caratterizzata in questo quinquennio per un marcato attivismo e protagonismo nel dibattito politico europeo, come pochi suoi predecessori avevano fatto prima, senza farsi mancare accenti polemici con altri soggetti delle istituzioni comunitarie, come il Presidente del Consiglio Europeo Michel e l’Alto Rappresentante per la politica estera Borell. La sessantacinquenne ex ministra della difesa di Berlino ha diretto la Commissione nel perseguimento delle iniziative legate al Green Deal, al piano di contrasto al Covid e alla costruzione del nuovo ruolo strategico dell’UE, sempre spendendo le sue personali autorità e reputazione ai fini del convincimento dei cittadini e degli altri attori politici europei. Non stupisce vederla nuovamente in campo e ottenere l’investitura di Spitzenkandidat dal proprio partito, alla convention di Bucarest di inizio Marzo. La sua campagna elettorale è stata peraltro preceduta, soprattutto negli ultimi dodici mesi, dalla costante ricerca di un rapporto personale privilegiato con i più influenti leader di governo del continente, anche di famiglie politiche diverse dalla sua, a cominciare da Emmanuel Macron e Giorgia Meloni. La nomina della Presidente della Commissione è, non va dimenticato, di competenza dei governi riuniti nel Consiglio Europeo, e Von der Leyen non sta lesinando sforzi per guadagnarne il consenso. Gli stessi punti del programma elettorale del PPE hanno spostato l’orientamento del partito verso destra, conferendo grande importanza alle politiche di difesa, ipotizzando soluzioni al problema migratorio basate su ricollocamenti in paesi terzi e approcciando in senso revisionista l’impianto legislativo sulla transizione ecologica e le annesse limitazioni all’industria, nel tentativo di intercettare lo spostamento dei flussi elettorali a favore delle istanze più conservatrici. Basteranno queste manovre a far mantenere la poltrona più alta di Palazzo Berlaymont alla presidente in carica? E’ lecito dubitarne, in quanto le troppe e contrastanti rassicurazioni fornite a diversi soggetti sta generando contraddizioni e conseguenti tensioni, mentre le inclinazioni a destra procurano irritazione tra Socialisti e Liberali. Se il feeling con la premier Meloni regge, lo stesso non sembra potersi dire per l’intesa con Macron, il quale, come scrive David Carretta su Il Foglio è apparso infastidito per le promesse mancate in tema di difesa comune. Negli ultimi giorni dal gruppo Renew Europe le sono arrivati, con buona probabilità non casualmente, tre attacchi mediatici da Thierry Breton, Christian Lindner e Matteo Renzi, mentre i Socialisti, riuniti nella loro convention romana, l’hanno avvisata di non mettersi in testa di allargare a destra la coalizione che la supporta. Se si aggiunge a queste premesse la non trascurabile quantità di delegati del PPE che non hanno votato a suo favore in occasione dell’investitura di Bucarest, il quadro non appare affatto semplice per la Presidente. L’impressione è che l’ambizione a guadagnarsi il bis a Bruxelles stia trascinando Ursula Von der Leyen in un gioco di equilibri politici precari, che da una parte la espone alla battaglia elettorale, e dall’altra rischia di farle trascurare i suoi doveri di Presidente dell’attuale Commissione, la quale si regge pur sempre su una coalizione multipartitica.
Alle spalle del PPE la lotta che emerge principalmente dal dibattito politico per il posizionamento nell’emiciclo di Strasburgo è tra Conservatori e Socialisti, con i primi, come detto, che sgomitano per entrare nelle stanze dei bottoni e i secondi a difendere le storiche posizioni conquistate nel corso di decenni. Il gruppo dei Conservatori e Riformisti sta puntando il non facile obiettivo di sostituire il PSE nell’alleanza di governo a Bruxelles con Popolari e Liberali, forte delle avanzate elettorali dei propri partiti nelle elezioni nazionali, e delle acquisizioni di ruoli di governo dei rispettivi leader, Giorgia Meloni in testa. Ad un tale risultato contribuiscono anche i venti di guerra spiranti sul continente, dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, che hanno favorito una saldatura tra il PPE e il fronte della destra conservatrice, nella quale il PIS polacco, filoatlantico e anti-russo, svolge un ruolo cruciale. Ma sono soprattutto le tendenze di voto dei popoli europei, sempre più spostate verso la destra dello spettro politico, a spingere i Popolari verso posizioni più conservatrici, come si è potuto osservare dalle ultime loro dichiarazioni e iniziative revisioniste in tema di transizione ecologica e immigrazione, temi particolarmente cari all’elettorato. I Socialisti si trovano in visibile difficoltà, considerati i problemi gravanti sui due principali governi a loro guida, in Germania e Spagna, e scottati dal Qatar-gate, che ha minato la credibilità di alcuni parlamentari e funzionari, quasi esclusivamente facenti parte di quel gruppo. Nella convention di Roma hanno proclamato quale loro candidato per la presidenza della commissione Nicolas Schmit, attuale commissario alle politiche del lavoro di nazionalità lussemburghese, sconosciuto al grande pubblico europeo, rinunciando quindi a presentare una personalità di alto rilievo da contrapporre a Ursula Von der Leyen. I Liberali non se la passano meglio, con il partito di Macron in relativo declino e l’FDP tedesco in grave crisi, per non parlare poi delle sclerosi degli affiliati italiani e della repentina scomparsa di Ciudadanos in Spagna. Anche i Verdi si palesano in forte perdita di consensi, smaltita la sbornia dell’onda green del 2019, mentre agguerriti si mostrano le forze del gruppo Identità Europea, egemonizzato da Marie Le Pen e rinvigorito dalla prorompente avanzata nei sondaggi del temuto AFD tedesco, utile a compensare il prevedibile forte arretramento della Lega di Matteo Salvini, trionfatrice in Italia cinque anni fa. Osservando il risiko elettorale, per come lo presentano i sondaggi effettuati nel continente, tuttavia, non sembra facilmente ipotizzabile un ribaltamento di alleanze al Parlamento Europeo, essendo oggi prevedibili spostamenti di voti, ma entro certi limiti. In particolare, se è vero che i primi tre partiti del parlamento attuale subiranno probabilmente un indebolimento, questo difficilmente sarà di grandi dimensioni, eccetto che per i Liberali, mentre i voti della destra nazionalista, pur in aumento, saranno certamente inservibili al tavolo dei negoziati, date le posizioni estremiste e apertamente anti-europee, quando non filo-russe dei suoi esponenti. L’insediamento di una coalizione di centro-destra con l’ingresso dei Conservatori al posto dei Socialisti risulta quindi di difficile concretizzazione, sia per la probabile insufficienza dell’avanzata elettorale dei primi, pur forse sostenuta dal possibile ingresso del Fidesz ungherese di Viktor Orban, sia per i dubbi su di essa espressi sia dai Liberali che da alcune frange del PPE.
Le rivalità tra i partiti e la campagna elettorale per il Parlamento Europeo, ad ogni modo, si sovrappongono alle strategie dei governi nazionali in merito al processo di scelta del Presidente della Commissione e alla nomina dei singoli commissari. Qui entrano in gioco dinamiche inerenti alle relazioni internazionali, più che al gioco democratico, essendo gli stati naturalmente interessati a scegliere personalità fidate per far parte dell’esecutivo comunitario e a contrattare per essi ruoli il più possibile di prestigio e influenza. Quel che si manifesta ogni cinque anni è la tendenza dei leader nazionali a dimostrarsi collaborativi nei confronti del Presidente della Commissione designato, anche in virtù di un certo riguardo da questi tenuto nel ruolo da affidare ai rappresentanti dei paesi più importanti in seno alla Commissione. Accade perciò, sovente, che tale collaborazione si estende anche ad un voto favorevole, o almeno ad un’astensione, in occasione del voto di fiducia in Parlamento al Presidente incaricato, anche da parte di partiti teoricamente non facenti parte della teorica maggioranza, ma che siano espressione di leader di governo nazionali. E’ stato il caso, nel 2019, del M5S e del PIS polacco, che votarono la fiducia a Von der Leyen, pur non facendo parte di raggruppamenti interni alla maggioranza nell’emiciclo. Molti analisti prevedono che possa accadere la stessa cosa il prossimo autunno, quando, ad esempio, potrebbe essere Fratelli d’Italia a partecipare, in qualche modo alla fiducia ad un presidente che avrà prevedibilmente ottenuto l’assenso in Consiglio Europeo anche da parte di Giorgia Meloni, specialmente se dovesse essere nuovamente proprio l’uscente ex ministra della difesa di Berlino. Non va infatti trascurata la modalità di nomina del capo dell’esecutivo comunitario, con i governi responsabili della scelta, da effettuare all’unanimità in Consiglio, sebbene consapevoli del dovere, di fatto, di tenere conto degli intendimenti dei gruppi politici del Parlamento, i quali dovranno poi eleggerlo a maggioranza. Quel che va in scena in questi frangenti a Bruxelles è un complesso gioco di equilibri in cui le posizioni politiche dei gruppi parlamentari si sovrappongono alle strategie degli stati e alle ambizioni dei singoli leader, lasciando poco spazio alla trasparenza di un ideale processo democratico. La stessa pratica dei partiti di presentare i loro rispettivi spitzenkandidat come naturale candidati alla carica di Presidente della Commissione, in vigore dal 2014, è stata fortemente depotenziata nel 2019 dalla decisione dei capi di governo di nominare a tal ruolo una personalità al di fuori di quella rosa di nomi, quale era Von der Leyen. Ciò che appare ineluttabile è la spinta verso governi e partiti proveniente dal barocco sistema istituzionale dell’Unione a “stare dentro” e a convergere verso il centro, nel tentativo di depotenziare le divisioni e ricondurle entro un complesso gioco negoziale. Singolare meccanismo consociativo di autodifesa e autoconservazione di un’istituzione rappresentante un unicuum nel panorama internazionale, perfetta sintesi tra approccio comunitario e intergovernativo.
In autunno, a bocce elettorali fermi, e con il Presidente eletto e insediato nella capitale belga, la competizione politica sarà quindi sul posizionamento dei singoli commissari all’interno dell’esecutivo. Se i grandi paesi aspirano naturalmente a ottenere incarichi di peso, i gruppi politici transnazionali puntano anch’essi a garantirsi i ruoli utili al controllo dei dossier di primario interesse. In questa complessa trattativa entrano anche le scelte sulle vicepresidenze, che generalmente conferiscono ai detentori di tale carica un ruolo di coordinamento e supervisione di un gruppo di colleghi, e il bilancino deve tenere conto pure della distribuzione complessiva delle cariche dell’Unione, incluse quelle relative alle presidenze del Parlamento e del Consiglio Europeo. I principali oggetti del desiderio di governi e partiti sono tradizionalmente la guida delle direzioni generali attinenti ai temi economici, quali la concorrenza, il mercato interno, il commercio e gli affari economici e monetari, ma la notevole importanza acquisita negli ultimi anni dalla gestione dell’immigrazione e dalle politiche ambientali e di transizione energetica, nonché le nuove prospettive di difesa comune, rendono tali settori particolarmente ambiti. A maggior ragione l’attenzione su di essi sarà ampia nei prossimi anni, essendo questi temi di grande rilevanza nel dibattito pubblico, e sui quali le politiche comunitarie esercitano un ruolo decisivo, o si apprestano nel futuro a farlo. Proprio su tali dossier si prevedono le principali battaglie tra i partiti, con la possibilità non esclusa di maggioranze trasversali in Parlamento, che includano anche soggetti esterni alla maggioranza che sostiene la Commissione. Le politiche di transizione ecologica, in particolare, sono oggetto di forte critica dai partiti di destra, che ha trovato, nel corso degli ultimi mesi, una certa corrispondenza di visione anche nei Popolari e nella stessa Von der Leyen. La revisione del Green Deal non è insomma ipotesi così lontana, anche nella prospettiva di garantire maggiori finanziamenti alle politiche di difesa e sicurezza, ma Socialisti e Verdi senza dubbio daranno battaglia per difenderne l’impianto. Anche riguardo alle politiche migratorie, dove la Commissione sta cercando faticosamente di condurre in porto un negoziato pluriennale per la revisione della Convenzione di Dublino, i recenti intendimenti del PPE sembrano avvicinarsi alle parole d’ordine della destra europea, con le aperture ai tentativi di esternalizzazione dell’accoglienza dei migranti in paesi extraeuropei avviati dall’Italia di Giorgia Meloni. I dibattiti parlamentari a Bruxelles nella prossima legislatura si preannunciano accesi, senza contare l’evoluzione che potrà avere la guerra in Ucraina e il relativo tema della difesa europea.
Dalle elezioni di giugno saranno definiti gli equilibri delle forze politiche con cui l’Europa si appresterà ad affrontare il resto del decennio in corso. Il difficile contesto geopolitico richiederebbe un Unione il più possibile coesa e salda di fronte a obiettivi comuni, anche in prospettiva di un allargamento ai Balcani occidentali, i cui tempi da anni vengono procrastinati, ma su cui non si potrà tergiversare ancora a lungo, almeno per alcuni paesi, pena il rischio di suscitare in essi delusioni e frustrazioni. E’ indubbio che, per entrambi i motivi sopra ricordati, l’UE avrebbe necessità di meccanismi di governance maggiormente rapidi, flessibili ed efficaci di quelli attuali, sebbene tale esigenza si scontri con la naturale propensione dei governi a riservarsi il più possibile peso decisionale e diritti di veto per le materie più delicate. L’affievolimento della storica maggioranza parlamentare di Popolari e Socialisti, ora allargata ai Liberali, anch’essi in difficoltà, rischia di rendere ancora più difficile una simile evoluzione in tal senso del sistema istituzionale comunitario, legata a propositi di riforma dei trattati che faticano però a prendere forma. Lo spostamento dell’elettorato verso destra, visibile negli ultimi anni nelle elezioni nazionali, e come scritto sopra, fortemente probabile anche in quelle continentali, farà verosimilmente propendere per la cautela nell’apertura ad ulteriori allargamenti significativi dei sistemi di voto a maggioranza, se pur qualificata, nel Consiglio dei Ministri. Resta da capire quanto sarà imponente tale avanzata e, se le sue dimensioni fossero importanti, quanto il gruppo dei Conservatori e Riformisti riuscirà a convincere i Popolari riguardo la propria affidabilità ai fini del governo dell’Unione. La grande sfida, che si presenterà di fronte all’Europa tutta dopo il voto, sarà coniugare le esigenze di efficacia dei processi decisionali e il potere non comprimibile tuttora in capo agli stati, soprattutto nella gestione della politica estera e di difesa. La costituzione di un meccanismo simile ad un consiglio di sicurezza europeo, con votazioni comportanti una presenza fissa di alcuni grandi paesi e a rotazione di altri, forse, potrebbe garantire all’UE una sufficiente flessibilità e capacità di azione. Di certo, non agire e continuare con l’attuale sistema istituzionale rischia seriamente di mantenere l’Europa impotente davanti agli eventi. Ma prima di ogni riforma o tentativo in tal senso, ormai, c’è il voto di Giugno. La parola ora va ai cittadini europei.
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