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Minerali dei conflitti, Parlamento Ue boccia la proposta “lassista” di Bruxelles
Si può ben dire che il Parlamento Europeo è ancora in grado di riservare sorprese, e questa volta è davvero clamorosa: dopo mesi di pressing della società civile e di varie organizzazioni non governativa, alla fine a Strasburgo l’assemblea plenaria ha deciso di mostrare che non ha voluto cedere alle lobby: per lo meno, non sul fronte dei minerali preziosi provenienti da aree di conflitti. Tutto al contrario di quanto invece ha fatto la Commissione Europea, che nel marzo del 2014 aveva presentato una proposta piuttosto debole. Così questo mercoledì 20 giugno il Parlamento Europeo ha completamente ribaltato il testo votato in sede di commissione Commercio estero introducendo l’obbligatorietà di certificazione per tutte le società operanti sull’intera catena di importazione, e in particolare di stagno, tantalio, tungsteno e oro. In gergo sono i “3TG“: le tre T dei primi tre – stagno è tin in inglese – più la G di gold, oro. Minerali utilizzati in telefoni cellulari, computer, stampanti, macchine fotografiche digitali, componenti elettroniche del settore auto, tanto per fare alcuni esempi. Minerali presenti in abbondanza in paesi come la Repubblica Centrafricana o la Repubblica Democratica del Congo, da anni alle prese con sanguinose guerre civili in alcune regioni. Non di rado a controllare le miniere sono signori della guerra che finanziano così le guerre locali: non a caso si parla dunque di “minerali dei conflitti”.
Gli Stati Uniti, per fare un paragone, hanno già una legislazione piuttosto severa, la Dodd-Frank del 2010, che impone alle società quotate a Wall Street di rendere pubblico l’utilizzo di minerali 3TG e di sottoporre ogni anno rapporti ad hoc alla Sec, l’organo di controllo della Borsa. Già da prima, comunque, società statunitensi come Hewlett-Packard e Apple pubblicizzano i propri sforzi per verificare l’origine delle materie prime utilizzate.
Fino al voto odierno era parso che l’Unione non avrebbe seguito l’esempio dei cugini di Oltreoceano. L’anno scorso, infatti, la Commissione Europea aveva presentato infatti una bozza di regolament0, a dir poco scandalosa: non prevede alcun obbligo per le società interessate. «L’autocertificazione richiede agli importatori dell’Unione di tali metalli e dei loro minerali di osservare il dovere di diligenza (vale a dire evitare di provocare danni nelle zone in questione) garantendo che la gestione ed il monitoraggio della catena di approvvigionamento e delle vendite rispettino le cinque tappe previste dalla guida dell’OCSE sul dovere di diligenza», si legge sul sito della Commissione. Il testo proposto lascerebbe ai circa 400 importatori in Europa di 3TG attuare un “dovere di diligenza” su basa volontaria, con una mera autocertificazione facoltativa che si è evitato di arrecare danni al territorio delle miniere e si è verificato che non si è finanziato gruppi armati nei conflitti. Bruxelles poi redigerebbe una lista delle società che l’hanno fatto. Tutto qui.
Secondo il trattato di Lisbona, però, le normative preparate della Commissione, salvo in pochissimi casi, devono essere approvate sia dal Parlamento Europeo sia dal Consiglio dell’Ue che rappresenta gli stati membri. Una sorta di “bicameralismo” comunitario. E in Parlamento c’è stata la svolta in cui pochi speravano: l’aula ha ribaltato il testo di compromesso raggiunto in commissione dal centro-destra (e cioè popolari, liberali e conservatori), che era solo di poco più avanzato rispetto a quello della Commissione: restava la volontarietà, fatta eccezione per appena una ventina di fonderie e raffinerie europee, che avrebbero avuto l’obbligo, con tanto di certificati, di verificare che i minerali usati non finanzino conflitti.
Un chiaro appello a regole più cogenti per l’intera catena di produzione ed esportazione è stato lanciato da varie personalità come il ginecologo congolese Denis Mukwege, vincitore del premo Sacharov 2014 per i diritti umani del Parlamento Europeo, e da Edward Zwick, il regista del film “Blood Diamond” con Leonardo Di Caprio come protagonista. Al contrario, BusinessEurope, che rappresenta le varie associazioni industriali dei 28 stati membri Ue, appoggiava ovviamente l’orientamento della Commissione: «L’approccio volontario – aveva detto una portavoce – favorirà un sistema di gestione responsabile». In realtà, aveva avvertito Lucy Graham di Amnesty International, «questa proposta ignora alcuni dei più importanti attori di questo comparto industriale».
L’appello al rigore è stato recepito a Strasburgo grazie alla battaglia che hanno dato soprattutto i socialisti, democratici e i verdi, che sono riusciti a dividere parte del centro-destra, ottenendo molti voti dai liberali. Così sono passati numerosi emendamenti, di cui due decisivi: uno chiarisce l’obbligatorietà, e non più la volontarietà, di dimostrare di aver verificato di non aver arrecato danni al paese delle miniera e di non aver finanziato signori della guerra; l’altro che coinvolta è tutta la filiera e non solo fonderie e raffineria. In questo modo si obbligherebbero paesi massicciamente presenti in Africa come anzitutto la Cina a rispettare standard precisi se voglio esportare in Europa i materiali in questione. Attenzione, è solo un passaggio importante, la battaglia è ancora lunga.
Adesso il Parlamento Europeo dovrà negoziare nel cosiddetto “trilogo” con Commissione Europea e soprattutto con il Consiglio Ue che rappresenta gli Stati membri, molti dei quali apertamente schierati a favore del testo annacquato della Commissione. Trovare un’intesa sull’ambizioso testo varato in aula dal Parlamento Europeo sarà arduo. Le lobby non sono ancora sconfitte, e anzi aumenteranno il pressing. Almeno però il Parlamento e la società civile hanno segnato un punto molto importante.
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Nella foto di copertina, minatori in Congo
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