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La sinistra italiana dopo la nuova vittoria di Syriza in Grecia
Il dibattito sarà, come al solito, estenuante e le possibilità di arrivare a una soluzione ragionevole appaiono pochissime. La nuova vittoria di Syriza in Grecia apre un nuovo fronte di discussione all’interno della sinistra italiana. Cioè, in realtà la discussione è sempre la stessa, ma adesso si aggiunge un elemento nuovo: Tsipras si è imposto ancora e rispetto allo scorso gennaio è riuscito a perdere appena un punto percentuale, ma ha lasciato a piedi una trentina di senatori di sinistra che gli hanno creato diversi grattacapi durante il suo primo mandato alla guida del governo di Atene. Per la cronaca, i fuoriusciti (riuniti sotto le insegne di Unità Popolare) non hanno raggiunto il 3% e sono rimasti fuori dal parlamento. Una situazione che in Italia qualcuno dovrebbe avere ben presente nella propria memoria.
La storia, si diceva, è nota: dal discorso del Lingotto di Veltroni, quando cioè il Pd proclamò la propria vocazione maggioritaria e, di fatto, scaricò tutto quello che poteva esserci alla propria sinistra (nella fattispecie: Rifondazione Comunista), è cominciata una lunga cavalcata nel deserto, almeno a livello elettorale. Nel 2008 la Sinistra Arcobaleno guidata da Fausto Bertinotti prese un milione di voti e il 3.2%, divenendo di fatto un fenomeno extraparlamentare. Alle europee del 2009, dopo il doloroso congresso in cui si consumò la scissione, Rifondazione prese un milione di voti e il 3.4%, mentre Sinistra e Libertà si fermò a 900mila voti e il 3.1%. Nel 2013 fu Sel a prendere un milione di voti, il 3.2% e qualche parlamentare in coalizione con il Pd. Rifondazione, intanto, aveva lanciato il cartello Rivoluzione Civile con l’Idv, guidato dall’ex pm Antonio Ingroia: 700mila voti e il 2.2%. Alle europee del 2014, infine, dopo una pace complicata e una serie di compromessi venuti meno poco dopo il voto, il nuovo soggetto, L’Altra Europa con Tsipras, accattò un milione di voti e un sanguinoso 4% che consentì l’elezione di tre eurodeputati: uno di Rifondazione (Eleonora Forenza) e due della cosiddetta «società civile»: Curzio Maltese e Barbara Spinelli, che in precedenza aveva annunciato la propria intenzione di rinunciare al seggio ma che poi decise di rimangiarsi tutto, buttando fuori Marco Furfaro di Sel. E questo è il dato storico: un affresco non esattamente edificante per dirigenti e militanti, sempre più stanchi, sempre più delusi, sempre più spaccati, sempre più frustrati da una sostanziale irrilevanza che brucia da morire.
E ora? Ora la situazione è, se possibile, ancora peggiore. I sondaggi (per quel che valgono) vedono Sel galleggiare tra il 3 e il 4%, Rifondazione in lotta per non scomparire e la new entry Possibile (l’ex Pd Pippo Civati) non pervenuta. La prospettiva che i dirigenti provano ad offrire prevede un nuovo tentativo di unità, con l’idea di scatenare un’ennesima guerra nucleare per sfondare, di riffa e di raffa, la soglia di sbarramento. Ne vale la pena? Probabilmente no, anche perché manca un progetto politico chiaro (la sinistra italiana sta insieme soltanto perché tutti si dicono genericamente di sinistra, non per affinità culturali o tradizioni storiche), manca un leader (l’unico papabile, Maurizio Landini, sembra non volerne sapere) e manca pure uno spazio politico da riempire, tra una sinistra del Pd che bene o male continua a tirare e un Movimento Cinque Stelle che ha già fagocitato ampie fette di elettorato.
In tutto questo, Alexis Tsipras, in Grecia, ha agito come vorrebbe (e forse potrebbe) fare Matteo Renzi in Italia: siamo sicuri che gettando a mare la sinistra il Pd perderebbe così tanti voti? Si diceva la stessa cosa dell’area cattolica (ricordate?), poi Paola Binetti è uscita senza conseguenze e Beppe Fioroni continua ad aggirarsi all’interno del partito, borbottante ma sostanzialmente inoffensivo.
E che dire dell’inglese Jeremy Corbyn? Uomo di sinistra (e neanche poco) anche lui, ma anche militante storico dei laburisti inglesi che ha sempre mantenuto la posizione anche durante la non breve parabola blairista, fino ad affermarsi come segretario a larga maggioranza appena pochi giorni fa. Per non dire, ancora in Inghilterra, della componente trotzkista del Labour, che in passato è riuscita ad esprimere addirittura un sindaco a Londra. Insomma, la situazione internazionale non strizza l’occhio alla sinistra radicale italiana, troppo spesso concentrata nella ricerca di un papa straniero al quale votarsi e sprovvista di una vera linea interna, vittima di ogni vento e ogni tempesta, fragile di umore e tendente alla depressione in maniera inquietante, sbattuta dai diecimila appelli degli intellettuali e dalle mitologiche aperture alla società civile, che pare arrivata soltanto per spargere il sale sulle macerie.
Torniamo in Grecia: l’eroe Yanis Varoufakis si è comportato come un Fassina qualunque e gli è andata male (qualche giorno fa l’ex ministro dell’Economia aveva dichiarato che avrebbe votato per Unità Popolare), mentre Tsipras è andato dritto come un treno e ha asfaltato tutto quello che si muoveva alla sua sinistra. Anche qui: vi ricorda qualcuno? E non si venga a dire che il Pasok ha fatto una brutta fine e che Syriza è il faro della nuova socialdemocrazia, perché in Grecia si sono verificate circostanze storiche eccezionali, e il Pd appare un’altra cosa (ben più consistente, almeno a guardare i numeri) rispetto ai cuginetti ellenici.
Il problema, in Italia, è che ormai a sinistra ogni idea di scendere a patti con il Pd renziano suscita orrore, e forse qualche buona ragione c’è pure. Intanto tra i democratici c’è un Pierluigi Bersani che continua a pensare che Matteo Renzi non sarà eterno, e che prima o poi la mitica «Ditta» tornerà a vincere. Forse è troppo ottimista, ma lui, da uomo cresciuto nelle sezioni del Pci, sa benissimo che se vuole contare qualcosa non può uscire, avrebbe tutto da perdere. Anche da un punto di vista mediatico. Un esempio: prima di andarsene via, Pippo Civati veniva intervistato pressoché ogni giorno dai principali giornali, ora che sta lavorando con Possibile è scomparso dai radar. Non è un complotto, è che adesso la sua posizione non è più giornalisticamente interessante: prima si poteva parlare di un fronte interno al Pd, adesso c’è soltanto un altro oppositore a Renzi. Uno dei tanti.
E quindi? La scelta è tra la lotta disperata per non sparire e la condanna a sottostare alla segreteria dell’ex sindaco di Firenze? Adesso sì, domani non si sa. Nel senso: se Sel e Rifondazione facessero confluire i propri iscritti nel Pd ne diventerebbero una componente importante, sicuramente molto più di ora. E sarebbe anche tempo di provare a guardare un po’ più in là delle prossime elezioni: magari andranno male, ma si può fare politica anche da posizioni di estrema minoranza: la politica è fatta di cicli, le situazioni si possono ribaltare nel tempo. Corbyn insegna questo. Tsipras, in fondo, pure.
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