UE
La politica della ricerca dice che l’Europa ha paura perché ignora il rischio
Questa settimana il Principe Serendippo, nelle vesti del sottosegretario Stefano Nannicini, mi ha aperto gli occhi su una imperdonabile lacuna culturale della nostra Europa, che forse spiega molto della nostra crisi. Scopriamo che nei famosi finanziamenti ERC alla ricerca europea, quelle borse prestigiose su cui si è congratulata la nostra ministra dell’università e della ricerca, manca assolutamente una parola: rischio. Questa mancanza può spiegare molto della crisi europea. Infatti, se non hai una classe dirigente che conosce il concetto di rischio ti restano solo due strade estreme da percorrere: l’avventurismo o la paura.
L’evento di serendipity è stato che mentre cercavo per interessi miei informazioni sugli sviluppi delle cattedre “Natta”, mi sono imbattuto nella notizia che se ne sta occupando il sottosegretario Nannicini, il quale avrebbe in mente, diceva l’articolo sul Sole 24 Ore, di lasciar perdere settori disciplinari dell’accademia italiana, e ricorrere alla classificazione ERC, cioè dell’European Research Council. Ho pensato subito che fosse una bella mossa, per liberarsi dai giardinetti della nostra accademia. E poi mi è piaciuta l’idea di respirare l’aria della ricerca europea, e mi è parsa una strada obbligata per cattedre che dovrebbero essere di eccellenza. Sono perciò andato a scorrere queste classi, e ho scoperto che nella lista mancano temi e parole importanti: manca ogni riferimento alla teoria del rischio e alle scienze attuariali.
Questo aspetto comporta ovviamente la conseguenza gravissima che probabilmente non ci sarà una commissione in grado di valutare le mie pubblicazioni, ma ha conseguenze serie anche per l’Europa. Sperando che si sia colta l’ironia della frase, questa scoperta è drammatica per chi ha conosciuto il mondo della finanza dall’industria e dall’accademia come il sottoscritto, e che oggi si trova a formare professionisti europei nel campo della finanza e delle assicurazioni. Questa evidenza fornisce anche una lettura dei comportamenti dei paesi nella nostra crisi. E forse è solo una coincidenza che apprendiamo che la fondazione dell’European Research Council risale al 2007, proprio l’anno in cui la più grande crisi che si sia mai vissuta si affacciava timidamente negli Stati Uniti, per metterne in ginocchio il sistema economico nel 2008 e trasmigrare in Europa l’anno successivo.
In pratica, dei 13,1 miliardi di euro che l’European Research Council verserà ai giovani ricercatori tra il 2014 e il 2020, nessuno potrà essere assegnato a discipline come: teoria del rischio e delle assicurazioni, teoria e pratica della gestione dei rischi finanziari. E nessuna commissione potrà valutare progetti di giovani ricercatori su temi come: misure di rischio, metodologie di trasferimento del rischio, rischi attuariali, rischi sistemici, rischi di contagio. Questo nasce da una cultura che, sebbene abbia fondato lo studio e la teoria del rischio, non le riconosce la dignità di disciplina e perpetua in un circolo vizioso una crisi europea di vocazioni alla ricerca e all’insegnamento nel campo del rischio e delle discipline attuariali.
Una società che non rispetta il rischio non può generare uno sviluppo economico sostenibile. Il nostro sviluppo degli anni del dopoguerra non è stato basato sulla consapevolezza del rischio. E’ stato uno sviluppo “fatto alla boia di un Giuda”, fatto perché non si avevano alternative, e senza la considerazione del rischio per sé, e tantomeno per gli altri. Gli scandali dei nostri tempi, sui rischi di imprese private riversati sui risparmiatori e sull’ambiente, sono un esempio degli effetti di uno sviluppo senza consapevolezza del rischio. E nello stesso modo, una politica che non è avvezza a considerare il rischio tende a prendere decisioni senza considerare il conto che potrà essere pagato dalle generazioni future e la ripartizione dei rischi tra diversi settori dell’economia e della società.
Le vicende dell’Europa mostrano chiaramente gli effetti di una mancanza di cultura del rischio. Nel momento più duro della crisi, quando i rischi andavano condivisi e ripartiti tra banche e stati, e tra stati del centro e della periferia, la gestione dei rischi è stata fatta in modo inconsapevole, per parole d’ordine, luoghi comuni e caricature. Il contribuente tedesco che non vuol prendere i rischi per gli altri, il governo greco che è affetto da azzardo morale, le crisi bancarie che devono ricadere sugli investitori, in modo che i contribuenti le paghino comunque in quanto clienti di quelle stesse banche. Sono tutte macchiette e caricature di una disciplina scientifica che in Europa non è riconosciuta e non è rispettata.
La teoria delle decisioni, un’altra scienza ignorata dagli scienziati di Europa, insegna che la conoscenza del rischio ha un’influenza importante sui comportamenti degli individui. In generale chi non conosce i rischi è meno propenso a prendere decisioni in condizioni di incertezza. Altri possono agire proprio perché preferiscono le scommesse più incerte. Nessuno è indifferente alla conoscenza dei rischi, meno che l’“agente rappresentativo” che popola i nostri libri di economia. Insomma, la consapevolezza del rischio è come il funzionamento della tiroide: può portare un corpo all’inerzia, o all’iperattività.
Non avere una cultura del rischio fa particolarmente male alla finanza. L’esperienza più comune per chi come me coordina un’offerta formativa di secondo livello per il mondo della finanza è trovarsi di fronte a giovani che si aspettano dai nostri corsi tecniche per poter prevedere i mercati, e non sanno che tutto quello che possiamo offrire è la conoscenza dei rischi sui mercati, e come gestirli. Ed è un piacere personale veder nascere in questi ragazzi alla fine del primo anno l’interesse per lo studio del rischio, e in molti di loro la richiesta di tesi in materie attuariali.
Di fronte a un’Europa ufficiale, quella di Bruxelles, che ignora il rischio, fortunatamente la realtà universitaria europea è migliore, in particolare per la dialettica che si è stabilita con l’industria del rischio. A livello europeo, mi è capitato di sedere in una commissione di dottorato alla Sorbona per la valutazione di una tesi interamente sviluppata in un contratto di apprendistato con Axa-Wintertur. In Italia, l’esperienza di una mia ex-studentessa mi ha fatto conoscere un programma di Master integrato tra l’Università di Trieste e Allianz. C’è poi un’attività costante di contatto e di coordinamento svolta su iniziativa del Consiglio Nazionale degli Attuari. E poi non ci sono solo le assicurazioni: anche il mondo della finanza è cosciente della centralità del rischio. Quando ho ristrutturato il mio corso, un corso di finanza, i questionari inviati a soggetti dell’industria hanno riportato un suggerimento univoco, quanto alla figura professionale: formare risk-manager. Le differenze stavano tra chi voleva un risk manager generalista o chi lo voleva ultra-specializzato, ma tutti concordavano sulla necessità di uno specialista del rischio.
In un momento in cui le risorse per la ricerca e la scienza sono scarse, però, il fatto che questa disciplina non abbia un riconoscimento a livello europeo approfondisce un problema di creazione e ricambio delle risorse che sono dedicate alla ricerca in campo accademico e alla formazione. Nel paese di De Finetti, colui che ha creato la disciplina da questa parte dell’Atlantico (mentre Leonard Savage ha fatto lo stesso negli Stati Uniti) nel momento in cui i suoi studenti si avviano alla pensione, non pare esserci una generazione di ricambio: ricordo un convegno a Sydney in cui uno di loro mi diceva che tutti i migliori studenti vanno nell’industria. Anche su questo, l’industria prova ad aiutare: in Bocconi è aperto ormai da anni un bando per una cattedra finanziata da Generali, ma sarebbe più consono dedicarla a Penelope, perché la prestigiosa università milanese aspetta un Ulisse delle assicurazioni che non sarà in grado di riconoscere. E anche in questo si avverte il male dell’Europa: il titolare di questa cattedra viene cercato tra contendenti provenienti dalle discipline più diverse rispetto a quella delle scienze attuariali. Quindi è prevedibile che anche questo tentativo finirà con l’investitura di Nessuno. Devo comunque avvertire il lettore che mentre sono convinto del quadro generale che ho tratteggiato in questo post, su questo caso particolare il mio giudizio può essere fortemente distorto da un mio conflitto di interessi nella vicenda (ebbene sì, mi dichiaro Procio).
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