Governo
La crisi europea. Cosa succede a Bruxelles
La crisi dell’Unione Europea di cui stiamo parlando in questi giorni, e su cui Matteo Renzi sta cercando di ritagliarsi un ruolo centrale per ricollocare l’Italia come paese protagonista nel nuovo scacchiere continentale, è composta da almeno tre fattori interconnessi: nessuno di questi è risolvibile senza toccare gli altri due. 1) La gestione dei flussi migratori; 2) La persistente instabilità finanziaria; 3) La questione strettamente politica. Ma andiamo con ordine.
La gestione dei flussi migratori
Il piano di ricollocazione dei migranti approntato dalla Commissione non sta funzionando. Per colpa di bizantinismi burocratici, di opposizioni politiche e mancanza di una vero e proprio coordinamento tra stati membri, un continente di circa 500 milioni di persone non riesce a ricollocare, in maniera sicura e umana, circa mezzo milione di richiedenti asilo. Mentre stati come Svezia e Danimarca approntano strategie di tensione per dissuadere i migranti dal chiedere rifugio, un paese come il Libano (che è poco più piccolo dell’Abruzzo, come dimensioni) riesce ad accoglierne 1 milione.
La persistente instabilità finanziaria
L’acquisto “senza limiti” di bond deboli da parte della BCE – il quantitative easing – ha tenuto a bada il temutissimo spread e ha allontanato dall’Eurozona gli avvoltoi della speculazione internazionale. Da qualche settimana, però, Mario Draghi ha messo in guardia tutti facendoci capire che non siamo ancora totalmente “al sicuro”. Senza una vera politica fiscale, economica e industriale coordinata la Banca Centrale Europea non può fare molto. Come ho avuto già modo di ribadire più volte: c’è bisogno di più politica e più Europa; c’è bisogno di rivedere il senso del progetto europeo e andare oltre l’interesse dei singoli stati. Purtroppo, però, bisogna combattere titubanze e scetticismi interni. Giusto qualche giorno fa ho avuto l’occasione di ascoltare, in un convegno alla Camera dei Deputati, il ministro Padoan dire che l’Unione Bancaria manca ancora del terzo pilastro: la garanzia comune sui depositi che permetterebbe un allentamento della tensione sui correntisti spaventati dall’entrata in vigore delle norme sul bail-in.
Sembra di essere tornati ai nastri di partenza anche sulla questione flessibilità. La Comunicazione approvata durante il semestre italiano aveva sollevato entusiasmi. Si intravedevano – tra questo e il Piano Juncker – quelle fondamenta politiche condivise su cui abbiamo costruito la coalizione tra gruppo dei socialisti e gruppo dei popolari che, ancora oggi, sostiene la Commissione Europea. Purtroppo, almeno per ora, le speranze sembrano non concretizzarsi. Al Berlaymont, il palazzo dove ha sede la Commissione, non sembrano voler distinguere fra la flessibilità cattiva, chiesta per deviare dal percorso di risanamento, e quella buona, dove l’investimento pubblico e l’espansione fiscale cercano di rilanciare lavoro, consumi e crescita.
La questione politica
Angela Merkel, in Germania, sta subendo attacchi da chi non condivide la sua politica sull’immigrazione. L’Europa fatica a trovare un leader altrettanto autorevole, capace di farsi carico delle questioni. Francia e Germania, da sempre asse portante dell’integrazione europea, sembrano indirizzati a un futuro “ristretto”, con un nucleo di paesi – idealmente l’eurozona – pronti a una maggiore condivisione di sovranità discutendo di volta in volta accordi più o meno stringenti col resto dell’Unione Europea.
Bisognerà prestare molta attenzione al negoziato con David Cameron in vista del referendum di Giugno. Qualora i britannici ottenessero ulteriori concessioni per non uscire dall’Europa, pure altri governi – come quello Polacco o quello Ungherese – potrebbero essere tentati di seguire l’esempio di Downing Street. Posto, ovviamente, che il primo ministro riesca a vincere una consultazione popolare mai in bilico come in questi mesi. Certo, Varsavia e Budapest non hanno il peso specifico di Londra ma, in un’ottica di rimodulazione dei rapporti di forza, alcuni governi potrebbero puntare a un’adesione soft, cercando magari di trattenere i Fondi Strutturali senza dover però partecipare ai programmi più controversi come la già citata Unione Bancaria o la cooperazione giudiziaria e di polizia.
Questa prospettiva fa capire come sia necessaria e urgente una riforma delle istituzioni europee. Commissione e Parlamento Europeo devono darsi gli strumenti per intervenire sulle grandi crisi continentali in maniera più flessibile e veloce. Soprattutto quando le emergenze non sono più tali, ma vere e proprie condizioni permanenti con cui dobbiamo fare i conti (si stima che nel 2050 ci saranno circa 1 miliardo di persone che, nel mondo, fuggiranno da qualcosa: vogliamo farci trovare impreparati?). Tutto questo significa una dotazione finanziaria che, finalmente, superi gli striminziti 100 miliardi del bilancio UE e si doti di risorse proprie non dipendenti dal volere dei singoli Stati Membri. I presidenti di Banque de France e Bundesbank hanno lanciato la proposta di un Ministro del Tesoro dell’eurozona. Una suggestione interessante – peraltro già presente nel rapporto dei Cinque Presidenti seppur con sfumature diverse – ma non priva di rischi. Va definito molto bene il quadro democratico in cui questo eventuale super-ministro andrebbe a muoversi, evitando che risponda al Consiglio Europeo e rafforzando il ruolo del Parlamento come “supervisore” e “garante” della Commissione. Inoltre va evitata la creazione di una figura meramente contabile, una specie di Ragioniere Generale Europeo utile solo per contare i decimi di deficit della Legge di Stabilità. Insomma, torniamo a fare politica.
Matteo Renzi ha dichiarato di voler convocare i leader PSE per un vertice dedicato proprio a tutti questi argomenti. Una strada giusta da percorrere. La famiglia progressista ha bisogno di un coordinamento. Dopo anni di subalternità culturale che ha sostanzialmente alle agende politiche di destra, leadership fresche come quella di Matteo Renzi, dello spagnolo Pedro Sanchez, del portoghese Antonio Costa e anche quella di Alexis Tsipras, a cui noi persone di sinistra dobbiamo tendere la mano, si impongano per ridefinire ruolo, confini e missione del socialismo europeo.
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