Autorità indipendenti
In 36 mesi dall’acqua pubblica all’acqua salata: perché?
In seguito alla decisione dell’Autorità per l’energia il gas e i servizi idrici di aumentare i costi sul consumo di acqua potabile (+3,9% nel 2014, +4,8% nel 2015), l’Associazione Difesa Utenti Servizi Bancari -detta più comunemente Adusbef– per voce del presidente Elio Lannutti nei giorni scorsi ha stimato un rincaro delle bollette acqua 2014/2015 pari a oltre 130 euro a famiglia, motivando l’aumento con una necessità di «finanziare gli investimenti per nuove infrastrutture», che teoricamente «in un regime di libero mercato spettano esclusivamente alle imprese», o meglio “spetterebbero”. Questa traduzione è molto semplice: tramite l’aumento gli italiani investiranno obbligatoriamente nella rete idrica che dovrebbe essere pubblica nonostante sia gestita privatamente da imprese private che oggi come altre sono in difficoltà. Talmente in difficoltà da non esitare a lasciare senz’acqua anche pensionati cardiopatici, come è accaduto il mese scorso al signor Salvatore Tafuro da Agrigento, poi morto d’infarto per volontà del Fato proprio durante un alterco con un dipendente della “Girgenti Acque”.
Il provvedimento dunque andrà a cadere su 34 milioni di cittadini che vedranno lievitare il costo dell’acqua potabile, mentre in 6 milioni avranno una diminuzione in bolletta del 10%. Questo non tanto per gentile concessione, quanto perché questo è il numero dei clienti gestiti da quel gruppo di aziende molto piccole (sono circa 1250) che spesso faticano molto a tenere il passo dei vari piani regolatori e per questo non sono riuscite a inviare i dati richiesti all’Autorità per l’energia, ricevendo come severa punizione una bella sforbiciata sui ricavi.
L’obiettivo è dunque quello di stanziare dei fondi per la ristrutturazione. Secondo Guido Bordoni, numero uno dell’Autorità per l’energia, gli aumenti «vanno a premiare le società tornate a fare investimenti che erano fermi da decenni». Poi c’è Paolo Cazzaniga di Altroconsumo che a Caterina Pasolini di Repubblica confida l’altro lato della medaglia: «Negli ultimi 5 anni –racconta- le famiglie con tre figli a Firenze hanno visto lievitare la loro bolletta di 336 euro, 34 %, mentre a Napoli coppie con un figlio hanno pagato 162 euro in più, il 79%. A Trieste invece le coppie hanno pagato il 72%». Il tutto ovviamente ampliato da un affresco sulle fatiscenti condizioni degli impianti, ma quelli appunto si devono ristrutturare e chi meglio di noi può saperlo, dato che dobbiamo pagare i lavori. Ogni tanto al massimo si può trovare qualcuno che ce lo faccia ricordare.
Anche perché in fondo l’essere umano è portato naturalmente a dimenticare in maniera celere, e dunque questo potrebbe sembrare una tema di scarso peso in un periodo in cui le priorità in agenda sono altre. Eppure se volessimo tornare indietro soltanto di poco più di tre anni precipiteremmo nel mezzo della seconda settimana di giugno, Anno Domini 2011, e verremmo accolti da un solo grido: “Acqua Bene Comune”.
I giorni 12 e il 13 di quel giugno ci fu il referendum (anche) sull’acqua e stravinse il SI, cioè ‘i buoni’, quelli che volevano acqua sempre e comunque, molti dei quali confluiti poi nei vari comitati “acquabenecomune” con slogan annessi. Gli altri, ossia il nemico di cartapesta che aleggia sempre durante una tornata referendaria, non ebbero a dire il vero molta voce in capitolo: la questione era talmente complessa che furono in pochi a recepire cosa in realtà si nascondesse in quella distinzione tra “pubblico” e “privato”. Tutto questo in un mondo dove gli ingegneri, i certificatori di qualità, i manutentori e gli immancabili generici esperti nel settore occupavano tv e stampa: il risultato –come spesso accade- fu solo quello di aumentare la confusione e accrescere l’assurda consapevolezza secondo cui di lì a poco saremmo tornati a usufruire dell’acqua pubblica, in un paese dove fino agli anni Novanta larghe fette di territorio –soprattutto nell’Italia meridionale- non avevano ancora un allacciamento idrico completo che coprisse le ventiquattro ore.
A questo va aggiunto che il referendum era ovviamente di tipo abrogativo –l’unica tipologia referendaria accettata dalla Costituzione più bella del mondo – , ossia quel ‘SI’ andava a cancellare il complicatissimo articolo 23-bis del 2008, che permetteva ad imprese di avere guadagni sulle bollette. Seguendo l’esito referendario l’articolo fu annullato, ma in caso di abrogazione nulla vieta agli organismi competenti di riformulare normative simili a quelle precedenti: lo dice la Costituzione più bella del mondo.
Ecco qui quantificato dunque il millesimale valore di un referendum che nel 1993 ci tolse il finanziamento pubblico ai partiti (trasformato poi in “rimborso elettorale”) e che due anni dopo, nel 1995, ci abrogò la normativa che inquadrava la RAI come servizio pubblico con annesso canone, per intenderci. Detto questo, dopo l’abrogazione sulla gestione idrica italiana era logica conseguenza che fosse effettuato un intervento di taglio europeo, perché forse fu quello il vero senso –l’unico, alla luce dei fatti- di quel referendum. E forse –forse- da qui si può anche spiegare il motivo per cui nel dicembre dello stesso anno con il decreto ‘Salva Italia’ il governo Monti inserì l’acqua sotto la gestione della “Autorità per l’energia e per il gas” al fine di svolgere anche “le funzioni attinenti alla regolazione e al controllo dei servizi idrici”. Ed eccola qui l’Autorità che fa il suo compito, girando tra i banchi e sforbiciando qua e là, affetta anch’essa da questa sindrome del professore severo in cui tutti i governanti a livello nazionale e internazionale appaiono essersi calati durante questi anni di crisi.
Per concludere e per smarcarsi dalla solita utopia dell’acqua pubblica che fa tanto terzomondista e oggetto di scherno per i sostenitori del libero mercato, vogliamo solo ricordare che dopo essere stati coinvolti e immersi in una mobilitazione popolare armati di pistole ad acqua puntate verso la Luna, a distanza di tre anni e mezzo da quel 13 giugno non solo abbiamo l’acqua gestita dai privati, non solo ci vediamo respingere dal Tar numerosi ricorsi contro i presunti tariffari irregolari, ma dobbiamo pure ottemperare tramite rincari agli investimenti decisi per la manutenzione: si calcola che per il ringiovanimento dell’impianto idrico nazionale nei prossimi quattro anni siano stati stanziati 4.5 miliardi, buona parte dei quali provenienti dalle bollette. Ora in totale ne servirebbero 25, e siamo pronti a indovinare chi si prodigherà a colmare la maggior parte del preventivo. D’altronde, più “acquabenecomune” di così non si può.
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