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Al Sud dove non si nasce più e si emigra sempre di più

5 Novembre 2014

Si diceva che  Napoli fosse un paradiso abitato da diavoli, secondo una frase attribuita a Goethe o, alternativamente, a diversi touristes settecenteschi. Come notò acutamente Croce, l’ironia sui guasconi la fanno i francesi, quella sui catalani gli spagnoli, quella sui napoletani gli italiani. Ed effettivamente la frase risale probabilmente già al Trecento, e comunque non è posteriore al 1568, quando il lucchese Bernardino Daniello scriveva che la natura, per non attirare l’invidia di altri luoghi meno ameni, aveva creato quel paradiso, ma lo aveva concesso a un schiera di diavoli. Un topos culturale lunghissimo, ispirato dalla mitezza della natura e dalla turbolenta fama dei suoi abitanti. Ma tra il Vesuvio e il fumo delle solfatare si è pure immaginato il golfo di Napoli come una delle possibili porte dell’inferno, per bollenti escursioni nell’aldilà. La troppo ghiotta metafora ispirò a Giorgio Bocca, nel 1992, il titolo di un durissimo resoconto sul Sud, L’inferno: profondo sud, male oscuro.

E ora, a che punto siamo con le metafore escatologiche? Forse, l’intero Mezzogiorno con la sua perdita continua di abitanti, potrà pure essere un inferno, ma un inferno ormai vuoto, per riprendere un’immagine cara alla teologia novecentesca,  177 mila. Segnate questa cifra: è il numero dei nati al Sud, il dato più basso dal 1861. Cifra che segue un trend demografico ben noto, ma da cui conviene partire per prendere in mano alcuni recenti dati sull’economia e la società meridionale. Pochi giorni fa è stato infatti presentato a Roma, come ogni anno, il rapporto Svimez, che fotografa in dettaglio la condizione del Mezzogiorno. Le notizie, come si può temere, non sono incoraggianti. Le quasi 900 pagine del rapporto sono il tracciato sismografico di un tracollo occupazionale, che coinvolge ogni territorio dal Garigliano ai Nebrodi. Pur essendovi il 26% degli occupati d’Italia, si concentra qui il 60% delle perdite di posti di lavoro dovuti alla crisi. Il Pil è sceso per il sesto anno di fila, lasciando sul campo un altro 3,5% (contro il -1,4% del Centro Nord); con un conseguente crollo dei consumi, con punte nell’alimentare e nell’abbigliamento. E occhio al Nord: la crisi del Sud è ormai così incistata da risultare poco reattiva ai cicli economici (per cui i due cammini possono andare slegati), ma è pur vero che la debole domanda interna meridionale è un ulteriore fattore di fragilità per l’eventuale ripresa dell’economia settentrionale. Il dato più drammatico (se si può fare una classifica) riguarda però la demografia, con il costante e progressivo spopolamento cui si accennava. In vertiginosa crescita le migrazioni dal Sud al Nord, in picco le nascite, tradizionalmente alte. Mentre al Nord sono sostenute dalla migrazione interna e straniera (anch’essi in fuga dal Mezzogiorno) al Sud per il secondo anno consecutivo le morti sopravanzano le nascite. Quei 177 mila, appunto. «Un padre che ama i suoi figli, può solo vederli andar via» diceva Rocco Scotellaro, poeta nobile del meridionalismo, ma si potrebbe obiettare che troppo amore uccide.

Pochi, sempre più vecchi, disoccupati e con scarsi servizi. Gli investimenti in opere pubbliche hanno toccato il punto più basso dagli anni ’70. Nelle scorse settimane un vortice di rabbia, che alimenta talvolta un patetico neoborbonismo, è stato sollevato dalla notizia che gli investimenti sull’Alta velocità dei prossimi anni verranno destinati per il 98,2% al Centro nord e per l’1,8% al Sud. Possibile, visto che il gap infrastrutturale è già enorme? Parrebbe di si. Paradossalmente più che i soldi conta il fatto che nessuna opera «strategica» e «assolutamente prioritaria» venga pensata al Sud, se non lo stanco refrain del ponte sullo Stretto. In ogni caso a partire dal 2008, in fase di crisi, quasi tutte le manovre di finanza pubblica hanno utilizzato i fondi per la coesione – lo strumento che serve, tra le altre cose, per il finanziamento delle infrastrutture al Sud – come riserva cui attingere a copertura delle emergenze, degli interventi di riequilibrio finanziario e degli interventi di sostegno al sistema economico. Alla fine si è contato un dimezzamento della dote dei soldi stanziati inizialmente. Si potrebbe infine pensare: Sud mantenuto, che risponde alla desertificazione industriale ammassandosi nel pubblico? In realtà attualmente gli occupati nella PA sono il 26 su 1000, contro il 31 su 1000 del Centro Nord. Insomma se il punto era affamare la bestia, qualche cinico potrebbe dire che quasi ci siamo. E’ avvenuto però chiudendo i rubinetti, non sempre aggiustando le perdite delle tubature, come sarebbe stato il metodo migliore. Nessuna sorpresa, in questa politica c’è la storia recente del Paese e nessun particolarismo meridionale. Quel che conta è che rimangono alti tassi di evasione e soprattutto di inefficienze.

Lungi dall’offrire questa istantanea per seguire lo schema retorico del chiagnere e fottere, bisogna che qualche considerazione si faccia. Appare quantomeno plausibile, come sostiene il rapporto, che: a) il funzionamento efficiente dell’amministrazione e del mercato è condizione necessaria, ma non sufficiente, per il rilancio del Sud; b) la condizione di molte zone del Sud rende necessario il proseguimento di politiche di aiuto allo sviluppo; queste non devono assumere la forma di sussidi, per incentivare crescita e non dipendenza; c) il mancato rilancio del Sud incide sulla crescita del paese intero (a tal proposito, la proiezione della SVIMEZ mostra come il completo uso delle risorse nel biennio 2014-2015 avrebbe portato a un +0,4 di Pil e in questo momento non c’è da essere schizzinosi). La SVIMEZ propone una risposta per l’occupazione articolata attraverso quattro snodi: rigenerazione urbana, rilancio delle aree interne, sviluppo di una rete logistica mediterranea, valorizzazione del patrimonio paesaggistico e culturale. Non ho le competenze per valutare se sia l’ordito giusto per tessere una tela robusta. Ma so che per farlo c’è comunque bisogno di soldi e di capacità.

Le incapacità e le inefficienze si riverberano intanto sulla speranza di far fruttare i fondi europei che copiosamente dovrebbero arrivare nel prossimo settennato. 22,3 miliardi di euro (dei 31 miliardi complessivi che riceverà l’Italia), una cifra di tutto rispetto su cui far leva per invertire la tendenza. Negli anni scorsi, come ben noto, la percentuali di fondi europei utilizzata è stata bassa. I motivi sono vari e noti: la difficoltà dell’accesso al credito, la lentezza delle procedure, un tessuto imprenditoriale non sempre all’altezza delle sfide dell’innovazione, le difficoltà economiche che hanno gli enti regionali a garantire la loro quota di cofinanziamento, il ruolo defilato dello Stato centrale nel supporto e nel controllo. Ma urge, dispertamente urge, che quei fondi vengano utilizzati e vengano utilizzati bene. Il Fondo per lo Sviluppo e la Coesione 2014-2020 è già in ritardo, senza contare che vi è il concreto rischio di disperdere le risorse in chiusura del ciclo 2007-2013. E’ stato presentato proprio oggi, 5 novembre, da Graziano Del Rio, l’Accordo di partenariato per l’utilizzo dei fondi; contestualmente è stata resa operativa l’Agenzia per la Coesione, la cui creazione si è svolta in un sostanziale silenzio. Colpisce che di questi processi e della vitale necessità di sfruttare i fondi si sia parlato davvero poco, rispetto all’importanza che potrebbero avere per il Sud e per il Paese; e senza parlarne è difficile che l’opinione pubblica svolga il suo fondamentale ruolo di watchdog (utile strumento a tal proposito è http://www.opencoesione.gov.it). Va pure aggiunto che l’inefficienza governativa dello Stato centrale e il problema del peso delle mafie non vanno certo taciute, ma non devono diventare un alibi (e qui credo che vada capovolta l’impostazione della SVIMEZ).

I ritardi nell’uso dei fondi sono infatti accentuati dall’assenza di una classe dirigente meridionale all’altezza, poco capace di ben amministrare a livello locale e di contare a livello nazionale. Non aiuta il fatto che il discorso pubblico sul Sud è avvertito dai più come un noioso rituale, una nenia ininterrotta senza sbocco e soluzione. Del resto, se anche la questione meridionale è stata abolita, non senza qualche ragione (G. Viesti, Abolire il Mezzogiorno, Laterza 2003), l’abbattimento delle politiche speciali non è poi riuscita a creare un’efficiente politica del territorio. I motivi sono chiari, ma ciò non toglie che vadano combattuti. Silenzio e sconforto sono un combinato micidiale: suggeriscono in anticipo che non saremo capaci di usare quei fondi e non aiutano a trovare il filo delle soluzioni.

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