UE

I barconi degli scafisti e le preferenze dell’opinione pubblica

21 Aprile 2015

Ogni dodici mesi dalle 300 alle 600 persone muoiono (principalmente per disidratazione, ipotermia e collasso dovuto al caldo) nel tentativo di attraversare illegalmente il confine tra Messico e Stati Uniti (la foto di copertina è il monumento eretto al confine tra Tijuana e San Diego in memoria di chi è morto cercando di passare dall’altra parte: una bara per ogni anno, con il numero totale di morti inciso nel legno). Dal 1998 al 2012 si stima che i morti siano stati circa 6000, molti dei quali in fuga dalla violenza che caratterizza diversi paesi del Centro America.

C’è un altro modo di raccontare la stessa storia: le restrizioni all’immigrazione spingono chi vuole entrare nel paese x o y, ma non può farlo legalmente perché verrebbe respinto e deportato, a trovare canali di ingresso alternativi, pericolosi e privi di controllo, non diversamente da quanto accade per le restrizioni sulla vendita degli stupefacenti, che alimentano il mercato nero e rendono impossibile controllarne la provenienza e la qualità, causando ogni anno un numero non trascurabile di morti altrimenti facilmente evitabili (“La droga acquistata attraverso le reti criminali è spesso tagliata con sostanze contaminanti; gli spacciatori vendono prodotti più potenti e rischiosi; e comportamenti ad alto rischio, come l’iniezione e la condivisione di aghi in ambienti non presidiati e in pessime condizioni igieniche sono all’ordine del giorno”.)

 

“Smugglers say the demand for their service remains high – scriveva ieri Patrick Kingsley sul Guardian dalla Libia -, despite the discontinuation last autumn of Italian search-and-rescue operations in the Mediterranean called Mare Nostrum […] Many people would go on the boats, even if they didn’t have any rescue operations. It’s not going to stop. It’s simply not going to stop”.

Scafisti e spacciatori prosperano perché esiste una domanda che non può essere soddisfatta se non in modo clandestino: se le leggi sull’immigrazione e sulla droga fossero diverse – se non esistessero le frontiere, ad esempio – il ruolo di tali intermediari diverrebbe presto marginale e con esso il rischio di morte per chi si avvale del loro servizio.

In tal senso, come ben illustra Chris Dillow in un post di qualche mese fa intitolato significativamente “Optimum deaths”, date le preferenze dei cittadini/elettori europei (ma non solo, di tutti i paesi occidentali e non, di fatto) e di chi nei “loro” paesi cerca di giungere, e data la tecnologia disponibile, che rende impossibile (se non a costi proibitivi) rendere i confini completamente non porosi – non accade al confine tra Messico e Stati Uniti, non accadrà certo nel Mediterraneo – ispezionando e prevenendo la partenza di ogni barcone, di ogni viaggio della speranza, e che dunque lascerà sempre aperto qualche canale di accesso, per quanto rischioso, dato tutto ciò, esiste un numero ottimale di “migrant deaths”, di morti di migranti. Ottimale nel senso di coerente con il sistema di preferenze in essere ed i mezzi tecnologici utilizzabili nel pattugliamento delle frontiere,

“Such risks arise inevitably from preferences and technology: the preferences of voters to restrict immigration and of immigrants to come here; and the imperfect technology of border controls which leaves open some dangerous routes into the UK”.

Quei morti sono la conseguenza delle nostre scelte. Per questo, ad un esame spassionato della situazione, non si può non notare un enorme tasso di ipocrisia da parte di moltissimi che in queste ore si stracciano le vesti per quanto accaduto nel canale di Sicilia. Così come ipocrita è prendersela con gli scafisti, che certo persone raccomandabili non sono, e che tuttavia esistono, come appunto gli spacciatori, principalmente perché noi rifiutiamo – a torto od a ragione, non è la questione che qui rileva – l’immigrazione libera (ed il modo più efficace di eliminarli non sarebbe davvero quello di sparare alle loro barche ed affondarle, come paiono proporre il Presidente del Consiglio e le autorità europee – operazione di cui è onestamente arduo cogliere la ratio favorevole agli immigrati, nella misura in cui implica la rimozione dell’unica via di fuga da ciò da cui cercano disperatamente di scappare, con il portato di unintended consequences che ne seguirà, e che sembra rispondere molto più all’esigenza di ridurre gli sbarchi che alla preoccupazione per la loro vita – bensì quello di far loro concorrenza, organizzando il trasporto per chi vuole venire, ad un prezzo più basso di quello che essi praticano e garantendo navi sicure. Ovviamente, ciò è politicamente impossibile).

Per i migranti si tratta di un calcolo che mette a confronto costi e benefici attesi: il costo molto alto del trasporto (a sua volta legato al rischio che ogni attività illecita comporta – l’arresto, la morte violenta – e che chiede di essere compensato) ed il rischio di morire nella traversata, con i benefici, in termini di differenziale di reddito e rischio di morte o prigionia se restassero nei propri paesi di origine. Evidentemente, le condizioni di partenza, reddituali e/o di sicurezza, sono in molti casi così negative da indurre decine di migliaia di persone a considerare razionale correre rischi anche potenzialmente fatali pur di sottrarsene. Elemento che non sfugge ai politici europei: David Cameron, il primo ministro inglese, si è opposto alle operazioni europee di salvataggio nel Mediterraneo, temendo che fornire assistenza avrebbe incentivato ulteriori e più numerose partenze, cioè abbassato il valore assegnato al rischio di morire nel computo costi/benefici di cui sopra.

Ma il punto non è che Cameron sia di necessità una cattiva persona, il punto sono i dati inequivocabili dell’osservatorio sull’immigrazione che egli, il suo mestiere essendo quello di raccogliere ed intercettare consenso, non può permettersi di ignorare: “approximately ¾ of people in Britain favour reducing immigration” e “large majorities have been opposed to immigration since at least the 1960s”, e così in tutto il resto d’Europa.

Naturalmente, i più informati tra di noi sanno che l’evidenza a disposizione tende a sconfessare le paure dei cittadini: non è vero che gli immigrati “ci rubano il lavoro”, non è vero che il saldo dell’immigrazione (assistenza fornita vs tasse e contributi versati) è negativo per le casse dello Stato, non è nemmeno vero che gli immigrati tendono a delinquere di più. Inoltre, esistono anche argomenti teorici ed empirici  – a mio parere validi – in favore dell’apertura delle frontiere, come quelli molto ben presentati da Bryan Caplan in una lunga intervista su Vox.  Questo parrebbe aprire lo spazio possibile per una politica diversa, quella politica alta di cui spesso lamentiamo l’assenza, che non si ritrovi semplicemente al traino dell’opinione pubblica ma cerchi di guidarla e persino di modificarla, quella invocata ieri sera a Piazza Pulita, la trasmissione condotta da Carlo Formigli, da Carlotta Sami, portavoce per il Sud Europa dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, che invitava i leader europei a convincere i propri elettori della bontà delle ragioni dell’accoglienza.

E’ molto improbabile che ciò accada in modo apprezzabile: in parte perché la politica alta è in grande affanno anche su temi sulla carta più facili e meno controversi, in parte perché l’atteggiamento negativo verso l’immigrazione resta diffuso, capillare, profondo, e molto difficilmente scalfibile, quantomeno in tempi ragionevolmente brevi, a prescindere dalle doti di persuasione e dalla volontà dei leader politici.

Dunque, realisticamente, il meglio che ci possiamo aspettare è qualche operazione più di facciata che di sostanza, ma nulla che possa essere davvero risolutivo. Molte chiacchiere, tanta retorica, ma un costante tenersi alla larga dal vero cuore pulsante del problema. Nel canale di Sicilia, così come al confine tra Messico e Stati Uniti o nelle acque che separano Indonesia ed Australia, si continuerà a morire, ancora a lungo, fino a quando l’opinione pubblica dei paesi di destinazione non cambierà i propri orientamenti od i paesi da cui si fugge, per ragioni economiche o di sicurezza, non offriranno opportunità tali da rendere il rischio di mettersi in viaggio non più sopportabile.

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