UE
Il problema della democrazia multiscala
Un po’ per la sua lunga e tormentata storia, un po’ per i recenti fatti di cronaca politica, la linea ad alta velocità Torino-Lione è diventata l”emblema di una dinamica ricorrente nel nostro Paese: quella per cui la popolazione di un territorio si oppone a una grande opera decisa dal governo nazionale, ricevendo poi la solidarietà da concittadini di regioni anche lontane. A volte il fenomeno si presenta addirittura a livello comunale, come è accaduto nella mia città con il contestato parcheggio multipiano in costruzione nel cuore del centro storico.
Chi è favorevole all’opera tende a liquidare le proteste come faccende locali, manifestazioni della cosiddetta sindrome NIMBY (acronimo dell’espressione inglese Not In My Back Yard, ovvero “non nel mio cortile”) dei residenti: una forma di egoismo un po’ infantile, per il quale si avversa un’iniziativa utile alla collettività solo in ragione del disturbo arrecato o di un limitato danno personale; chi invece è contrario, anche senza essere direttamente coinvolto, percepisce quel territorio come la vittima sacrificale di un’entità lontana, dispotica e sorda alle ragioni altrui ed è portato a lottare con grande determinazione e perseveranza. La politica si divide, quasi sempre, in due fazioni, la governista che sostiene l’argomento dell’utilità generale e la localista che si fa paladina delle comunità che la contestano: è quanto sta accadendo, in modo abbastanza paradossale, sulla TAV all’interno dell’esecutivo giallo-verde.
Dirimere la questione è tutt’altro che semplice, perché l’opposizione alle grandi opere pone, nei fatti, un problema di sovranità: essa viene rivendicata sia dagli abitanti del luogo, cioè coloro che subirebbero le conseguenze negative dell’opera, sia dal governo a nome della collettività nazionale, che ne ha bisogno e che ne trarrebbe solo vantaggi. I primi, pur essendo numericamente in minoranza, reclamano il diritto di difendersi da ciò che vivono come un sopruso intollerabile; il secondo porta avanti le esigenze della maggioranza che, in quanto tali, dovrebbero prevalere in base alla logica democratica.
Lo scontro sulla TAV è in realtà la rappresentazione esemplare di un problema profondo, che potremmo chiamare della democrazia multiscala: a chi tocca la scelta, quando non vi è accordo tra comunità di diversa scala geografica e quando la più piccola invoca le ragioni dell’autodifesa, normalmente tutelate dalla legge, contro le decisioni che la più grande può legittimamente imporle? A ben guardare, il tema si pone oggi con una notevole frequenza e a tutti i livelli dimensionali: dai difensori del quartiere storico che avversano l’ecomostro sotterraneo approvato dal Comune agli abitanti della valle che si oppongono al tunnel concordato col Paese confinante; dai cittadini di uno Stato che si ribellano ai vincoli finanziari imposti dall’adesione ai trattati europei fino alla nazione continentale che decide di non rispettare gli accordi globali sottoscritti nell’ambito dell’ONU.
La contrapposizione tra localismo e globalismo, che molti studiosi indicano come la nuova linea di faglia che divide la politica (al posto di quella, ormai superata, tra destra e sinistra), potrebbe essere il frutto di questo problema irrisolto: l’inevitabile contrasto tra la tutela degli interessi delle comunità a piccola scala e quelli della collettività a scala più grande – e lo sterile schierarsi della politica dalla parte dell’una o dell’altra. Esso sarà, con ogni probabilità, al centro del confronto pubblico durante la campagna per le prossime elezioni europee – che vedranno fronteggiarsi sovranisti e federalisti – come lo è stato nel referendum su Brexit e nelle ultime elezioni presidenziali americane, dove l’isolazionista Trump ha prevalso sulla multilateralista Hillary Clinton.
Come si vede, le due vie d’uscita indicate dalla politica vanno in direzioni diametralmente opposte e altrettanto inefficaci: chi propone di rompere tutti i legami sovranazionali finge di non sapere che senza di essi la convivenza tra Stati diverrebbe una catastrofica lotta di tutti contro tutti, nella quale sarebbero i più forti a prevalere; chi invece intende rafforzare e moltiplicare tali legami preferisce ignorare il fatto che essi potrebbero causare nuovo malcontento e ribellioni ancora più virulente. La situazione è analoga anche al livello dimensionale più piccolo: se ogni sparuto comitato di cittadini potesse porre il veto a qualunque opera pubblica, il trionfo del nimby paralizzerebbe la vita sociale; d’altra parte, l’imposizione della logica del sacrificio umano – per la quale il singolo, o il piccolo gruppo, deve soccombere in nome del benessere della comunità – sarebbe eticamente inaccettabile e minerebbe le basi della convivenza civile.
Come uscire dall’impasse? La risposta è meno banale di quanto appare: serve una politica degna di questo nome. Oggi i partiti tendono ad interpretare solo il ruolo di rappresentanza, perché sono interessati unicamente ai voti: perciò fanno proprie le istanze dell’una o dell’altra parte – del comitato civico o del Comune, dei valligiani o della Regione, del leave o del remain e così via – e promettono che le faranno prevalere, se riusciranno a conquistare la forza parlamentare necessaria. Questo è sicuramente un buon modo per attirarsi la simpatia degli elettori, ma lascia intatto il conflitto alla base delle divisioni e non indica una vera soluzione, che richiede invece l’arte – assai complessa e purtroppo quasi dimenticata – della creazione del consenso. Di fronte a rivendicazioni opposte e inconciliabili non basta infatti istituzionalizzare lo scontro, dando rappresentanza a entrambe le parti: bisogna provare a convincere una delle due della bontà delle ragioni dell’altra, anziché imporgliele con la forza; se ciò è impossibile, occorre superare le opzioni sul tappeto e ricercarne faticosamente una nuova, che riesca a mettere d’accordo tutti; perché un bene superiore è realmente tale solo se è condiviso da chiunque, anche dal singolo che sa di avere qualcosa da rimetterci.
Un compito così arduo può essere svolto solo da istituzioni dei diversi livelli territoriali che collaborino lealmente e che abbiano la fiducia dei cittadini. Uno degli aspetti che rendono problematici i conflitti sopra ricordati è infatti la scarsa autorevolezza degli attori coinvolti, soprattutto quelli che stanno dalla parte più forte: che sia una giunta municipale poco coerente col suo programma, un governo pieno di contraddizioni o una Commissione europea in crisi di credibilità, l’ente che prova a imporre la propria volontà ai cittadini è spesso avvertito come distante e la sua azione viene percepita come un abuso di potere. Correggere questa sensazione è il primo scopo che la politica deve perseguire, per evitare che la vita pubblica – in un mondo sempre più complesso e interconnesso su varie scale – degeneri in uno scontro permanente tra i diversi livelli e diventi completamente ingestibile; soffiare sul fuoco delle contraddizioni è invece una strategia che può pagare in termini di consenso elettorale, ma che finirebbe per portare il Paese in un tunnel senza uscita.
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