UE

Il Pilastro Europeo dei Diritti Sociali: siamo alla fine dell’austerità?

29 Novembre 2017

Venerdì 17 Novembre 2017 il Consiglio Europeo, il Parlamento e la Commissione hanno ufficialmente firmato la Proclamazione inter-istituzionale sul Pilastro Europeo dei Diritti Sociali. Due anni dopo il lancio dell’idea da parte del presidente Jean-Claude Juncker durante il suo discorso sullo Stato dell’Unione, il Pilastro Sociale ha compiuto il suo primo passo concreto.

L’Europa torna, quindi, a mettere al centro del dibattito la sua dimensione sociale e lo fa con un netto cambio di paradigma. Il Social Summit di Göteborg, voluto dal primo ministro socialdemocratico svedese Stefan Löfven, e in occasione del quale le tre istituzioni europee si sono riunite per firmare la Proclamazione, infatti, è stato dedicato al tema “Per una crescita e un’occupazione equa e sostenibile”. Come ha commentato il professor Frank Vandenbroucke, si è trattato di un segnale cauto, ma indubbiamente netto, di un cambio di marcia rispetto al motto di austerità cui siamo stati abituati. Basti pensare, a tale proposito, che l’ultima volta che i leader europei si sono incontrati per parlare di occupazione risale al 1997, in occasione del Jobs Summit, curiosamente ospitato dall’allora primo ministro del Lussemburgo e attuale presidente della Commissione, nonché principale promotore del Pilastro Sociale, Jean-Claude Juncker. Venti anni dopo quell’incontro, la parola “sociale” ritorna ad essere affiancata alla parola Europa.

Si tratta indubbiamente di un fatto storico al quale, tuttavia, pare non essere seguita altrettanta risonanza mediatica. Sui media nazionali l’argomento è passato in secondo piano ed è sembrato, addirittura, che il primo ministro Paolo Gentiloni a Göteborg non sia andato per il Summit Sociale, quanto, piuttosto, per convincere (ex post, senza molta fortuna) i partner europei a votare Milano, come nuova sede dell’Agenzia del Farmaco (EMA). La notizia non ha avuto maggiore diffusione nemmeno tra i mezzi di informazione per gli addetti al settore che gravitano attorno alla bolla bruxellese. Non solo, tra gli interventi (pochi) che sono stati fatti, le visioni sono state piuttosto discordanti. Alcuni commentatori hanno messo già una pietra sopra il Pilastro, come progetto fallito; altri sono rimasti scettici; infine, un terzo gruppo, seppur riconoscendo i limiti politici e giuridici della proposta, ha messo in evidenza il valore aggiunto del Pilastro come “spazio di possibilità”, il cui impatto sarà largamente dipendente dalla volontà dei principali attori politici.

Quale significato possiamo dare, dunque, a questa Proclamazione inter-istituzionale e, in generale, al Pilastro Europeo dei Diritti Sociali? Si tratta di una semplice bandiera con cui, come hanno commentato alcuni leader del gruppo S&D, Jean-Claude Juncker e il Partito Popolare Europeo vogliono potersi fregiare della parola “sociale”? Oppure, si tratta di un vero primo passo nella direzione di un’Europa che, concretamente, mette da parte le politiche di austerità, e pone al centro della propria agenda la dimensione sociale?

Prima di rispondere a queste domande proviamo a ripercorrere brevemente il percorso e i motivi che hanno portato alla nascita del Pilastro. Come detto sopra, la prima idea di un Pilastro Sociale viene lanciata nel 2015 ma è nel marzo 2016 che la Commissione avvia una consultazione pubblica della durata di un anno, alla quale invita tutti gli attori politici e civili interessati (istituzioni europee, governi nazionali, parti sociali e cittadini) a partecipare. L’obiettivo dichiarato del Pilastro consiste nel definire un quadro di riferimento con indicatori specifici che possano fungere da punto di riferimento per un percorso di convergenza sociale dei modelli di welfare europei. In particolare, nella bozza definita dalla Commissione, vengono individuate venti aree di intervento, suddivise in tre macro-settori: uguali opportunità e accesso al mercato del lavoro, condizioni di lavoro eque, protezione ed inclusione sociale. Tra le aree individuate dalla Commissione alcune fanno già parte delle competenze dell’Unione Europea, come i diritti di “uguali opportunità”, “parità di genere” e “salute”, mentre altre nuove sono state introdotte, come il diritto al “reddito minimo”, al “salario minimo” e ad “un’abitazione dignitosa”.

La definizione di un quadro di riferimento degli standard sociali europei serve per il conseguimento di due obiettivi. Il primo consiste nell’aggiornamento dei modelli di welfare europei rispetto alle nuove esigenze e sfide del XXI secolo (invecchiamento, digitalizzazione, automazione, incremento dell’occupazione femminile, cambio delle strutture familiari etc.). Il secondo consiste nel bilanciamento delle asimmetrie all’interno dell’Unione Economica e Monetaria (UEM), esacerbate durante la crisi finanziaria, ossia nel dare una risposta agli squilibri che si sono venuti a creare tra i paesi aderenti alla moneta unica, a causa dell’imposizione di regole comuni (parametri di Maastricht) a modelli di sviluppo economico differenti (con i paesi del Nord dell’UE maggiormente favoriti dai criteri dell’UEM e quelli del Sud più svantaggiati).

Ed è esattamente su questo secondo punto che il dibattito si è fatto, sin dall’inizio, particolarmente teso. In particolare, due sono i problemi che si sono manifestati. Il primo, piuttosto evidente, è di tipo politico e consiste nell’indisponibilità a modificare le regole europee da parte di quei paesi che, fino ad oggi, ne hanno maggiormente beneficiato. A questa indisponibilità a modificare i parametri di Maastricht (vedi, ad esempio, l’allentamento del Patto di Stabilità), si aggiunge una diffusa ritrosia da parte di tutti gli stati membri a cedere sovranità in materia di politiche sociali, considerate competenza esclusiva nazionale. Il secondo problema, invece, è di tipo giuridico e consiste nella quasi assenza di competenze dell’Unione in materia sociale. Il che ovviamente non significa che le scelte dell’Unione in materia di governance economica, ad esempio, non abbiano ricadute sulle decisioni dei singoli stati membri in materia di spesa pubblica per il sociale (si vedano, ad esempio, le recenti richieste della Commissione in materia di pensioni con riferimento alla legge di bilancio in discussione in questi giorni). Quindi, quando si parla di assenza di competenze in materia sociale dell’UE, si fa riferimento alle competenze dirette, le quali, comunque, difficilmente saranno concesse all’Unione in futuro, dal momento che, per fare ciò, servirebbe l’unanimità degli stati membri che, al momento, è molto difficile da raggiungere (si veda, ad esempio, la posizione dei Paesi scandinavi, indisponibili a rinunciare alla loro sovranità in materia di welfare).

Come si può caprie, il quadro, nel momento in cui si passa dagli intenti alle proposte concrete, diventa particolarmente complesso. Ed è esattamente alla luce di questo scenario, che la Commissione europea ha proposto come primo passo del Pilastro Sociale quello di una Proclamazione inter-istituzionale, che funga da quadro di riferimento sulla base del quale le parti firmatarie si impegnano politicamente a lanciare, in un secondo momento, una serie di iniziative legislative più specifiche.

Quali conclusioni trarre? Che la montagna ha partorito un topolino e ai magniloquenti intenti della Commissione è seguito un nulla di fatto?

Non esattamente. Benché diversi commentatori lo abbiano già fatto, non possiamo dire che la Proclamazione in quanto tale sia un documento privo di ogni potenziale. Zane Rasnaca, ad esempio, ha messo in rilievo il ruolo che la Corte di Giustizia potrebbe avere, richiamando la Proclamazione nelle sue decisioni. Nella storia dell’Unione c’è un già un precedente in cui si è utilizzato lo strumento della Proclamazione, ossia la Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE del 2000, la quale è stata poi incorporata nei trattati nel 2007 e che oggi svolge un ruolo fondamentale come quadro di riferimento cui gli Stati Membri devono attenersi quando legiferano. Non solo, oltre alla Corte di Giustizia, anche la Commissione Europea potrebbe ora svolgere un ruolo di primo piano. Il fatto che il 17 Novembre, a Göteborg i leader europei si siano incontrati e abbiano approvato il testo proposto sulla base dei 20 principi e diritti proposti dalla Commissione e appoggiati dal Parlamento Europeo, è un passaggio di fondamentale importanza. Firmando l’accordo, ad esempio, gli Stati Membri si sono impegnati a garantire il diritto di uguale trattamento e accesso alle protezioni sociali a tutte le forme di lavoratori, a prescindere dalle forme contrattuali, il diritto all’educazione permanente e alla formazione attiva per chi perde il posto di lavoro, il diritto ad un salario minimo, il diritto per i bambini ad avere uguali opportunità e il diritto ad avere un’abitazione dignitosa. Non sono impegni di poco conto e possono legittimare più di un’azione politica in tale direzione.

A tale proposito, la Commissione ha già lanciato tre significative iniziative politiche: la creazione di un’Autorità Europea del Lavoro, una Direttiva sul bilanciamento vita famigliare e lavorativa e una consultazione con le parti sociali per un’azione volta ad affrontare le sfide di accesso alla protezione sociale per tutte le categorie di lavoratori. Certamente, non è ancora sufficiente e serve un’azione più ambiziosa, che metta mano, in primo luogo, alle regole della governance dell’Unione Economica e Monetaria.

Per fare questo, tuttavia, è necessario che l’attenzione sul Pilastro non si abbassi, che le parti sociali, i partiti politici e l’opinione pubblica si mobilitino per ricordare che la sottoscrizione della Proclamazione inter-istituzionale è un impegno politico non irrilevante. Certamente, non è un atto legalmente vincolante e la sua sottoscrizione non implica automaticamente che i principi e diritti in essa contenuti siano garantiti.  Sta, infatti, alla volontà dei diversi attori politici fare della Proclamazione il trampolino per lanciare una serie di iniziative legislative concrete. Tuttavia, se l’attenzione sul Pilastro e sulla Proclamazione non diminuiscono sarà molto più difficile per gli attori politici venire meno all’impegno che hanno sottoscritto a Göteborg.

 

Francesco Corti

@f_corti1992

@euvisions

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