Partiti e politici

Il PD, il (mio) partito che non c’è. Tra “vecchia ditta” e “Leopolda S.p.a.”

21 Settembre 2015

Potrebbe apparire un paradosso che chi – come il sottoscritto – ricopra degli incarichi in un partito politico – sia in una realtà territoriale che in una direzione regionale – arrivi a teorizzare che l’organizzazione di cui è parte nei fatti non esista, se non come cartello elettorale e contenitore di gruppi e personalismi assai autonomi che spesso con i principi fondativi – quelli del Lingotto di Veltroni per intenderci – hanno ben poco a che vedere. Ma questo oggi penso che sia il Partito Democratico, una creatura mai nata.

E forse sì, è proprio un paradosso che a raccontarlo e denunciarlo sia qualcuno che una tessera di quel non partito la porta in tasca, persino con un certo orgoglio. Ma il mio personale paradosso si colloca in un contesto storico già paradossale di suo, dove ciò che resta delle vecchie appartenenze politiche lo si è voluto archiviare in dei faldoni con su scritto “ideologie”, lasciando al caso le ragioni, le idee e persino le pulsioni emotive che possono indurre l’individuo a scegliere una “parte” politica.

Io quella “parte” la scelsi ormai vent’anni or sono, perché pensavo e penso che tra tutte le forme di volontariato – perché da questo è sano partire, non dalla smania ossessiva di ottenere un ruolo o una corsia preferenziale per altro – la partecipazione politica fosse la più utile alla comunità e – volendo allargare il campo – al Mondo intero. Non me ne vogliano dunque coloro che si dedicano con passione all’accoglienza dei rifugiati o si spendono per la difesa degli ecosistemi del pianeta, magari controllando che le uova delle tartarughe della Patagonia si schiudano correttamente, ma continuo a credere che senza la politica, una buona politica, tutti i grandi ideali di giustizia siano destinati a restare sogni irrealizzabili. E la partecipazione politica – quella disinteressata di chi non mira ad essere cooptato da qualche parte – prevede che si combattano anche delle battaglie interne a viso aperto, per modificare l’organizzazione di cui si fa parte. Per questi motivi, convivo con il paradosso che porto ormai serenamente con me.

Il 17 settembre mi sono recato, in compagnia del mio paradosso, all’Assemblea nazionale di Campo Democratico, l’associazione politica voluta da Goffredo Bettini, uomo di cui nutro profonda stima intellettuale e che ascolto da sempre con l’orecchio di chi deve imparare qualcosa da ogni frase da lui pronunciata. Bettini è probabilmente uno degli ultimi intellettuali con la “I” maiuscola della sua generazione, per molti un faro, per altri un “manovratore oscuro”. Forse porta in sé entrambe queste definizioni e in entrambi i contesti non si può non riconoscergli una grande intelligenza.

In quella sede speravo, ahimè inutilmente, di ascoltare una discussione politica che potesse in qualche modo volare più alto delle ormai costanti vuote polemiche tra quella che in questo tempo di messaggi semplificati e “cinguettati” su Twitter viene definita “vecchia ditta” e quella che semplificando a mia volta (per non far torto a nessuno) mi diverto a definire “Leopolda S.p.a.”.

Sono infatti ormai queste le due macro anime del PD e intorno a loro si posizionano correnti, corporazioni e gruppi di potere. La prima nasce come sommatoria più matematica che valoriale di gran parte della vecchia classe dirigente trasversale ai due partiti fondatori, la seconda è una sorta di “società esterna” che sfruttando abilmente il momento ha preso in mano la gestione del partito, dopo aver vinto una gara d’appalto che sempre per semplificazione chiamiamo impropriamente “primarie”, un rito che nulla ha a che vedere con lo strumento di partecipazione usato dai partiti inglesi o americani. La prima ha i suoi riferimenti “ideologici”, i suoi leader e le sue fonti di finanziamento, che vanno dalle fondazioni alle società cooperative, la seconda brilla nella comunicazione, ha il suo leader e sotto di lui una sorta di consiglio d’amministrazione messo lì dalle sue fonti di finanziamento, che vanno dai finanzieri più spregiudicati agli imprenditori “pop” come i Cucinelli e i Farinetti, soggetti presumibilmente già in rete prima della costituzione di “Leopolda S.p.a”. La prima è – nell’immaginario collettivo – quella dei perdenti che nel migliore dei casi “vincono male”, forse perché da molto tempo hanno smesso di immaginare cosa fare dopo un’eventuale vittoria. La seconda è vincente, o almeno così riesce ad apparire, probabilmente perché non si pone minimamente il problema di immaginare cosa fare dopo un’eventuale vittoria, plasmandosi di volta in volta sui desideria dell’opinione pubblica.

L’assemblea si apre con l’intervento di Sandro Gozi, sottosegretario del governo con delega agli affari esteri e coordinatore nazionale di Campo Democratico. A parte il piglio da agente immobiliare alle prime armi, Gozi dedica gran parte del suo intervento alla “vecchia ditta”, lanciando attacchi astiosi e frecciate a quelli che sulla carta sarebbero dei suoi compagni di partito. La musica non cambierà molto con i saluti dei capigruppo Ettore Rosato e Luigi Zanda. Il centro della discussione sono ovviamente le riforme, che ancora non si è capito se siano una noiosa questione da addetti ai lavori di cui ai cittadini non importa nulla e su cui è inutile perderci in mille discussioni, o se siano al contrario quello che i cittadini ci chiedono di fare da vent’anni perché sono fondamentali per il paese e che quindi abbiamo il dovere di portare a termine il più velocemente possibile (anche se si potrebbero migliorare) senza perderci in mille discussioni. Qualunque sia la versione scelta, ormai sono decise ed è inutile discuterne.

Insomma, per ascoltare qualche argomento che esuli dalla polemica interna, gli unici interventi menzionabili sono un appassionato Gianni Pittella sui temi dell’Europa e dell’immigrazione, Roberto Morassut che dedica gran parte del suo intervento a Roma e al peso istituzionale che dovrebbe avere una capitale moderna (auspica una città-regione sul modello di Berlino) e quello di Marco Tolli sempre su Roma.

Resto a quel punto in attesa di qualche altro punto di vista sulla polemica interna, dato che il Campo Democratico di Bettini doveva essere una sorta di luogo aperto a tutte le narrazioni che coprisse appunto tutto il “campo” del PD, ma l’attesa si rivelerà vana. La scelta che appare evidente è quella di posizionare l’associazione a supporto di “Leopolda S.p.a.”, scelta non proprio originale e per giunta un po’ tardiva, se si pensa che altre realtà come i “Giovani Turchi” di Orlando e Orfini – che interverrà nel ruolo di presidente del PD – o i popolari di Franceschini, per fare un paio di esempi, già da tempo sono “aree satellite” della società appaltatrice. Insomma, il rischio concreto che percepisco nella scelta di Bettini è quello di un “campo” sempre più ristretto che in breve tempo potrebbe diventare un “cortiletto democratico”. Nulla contro i cortiletti, che se ben curati possono essere molto graziosi, ma le aspettative erano altre.

Lascio l’assemblea a causa di altri impegni, ripromettendomi di ascoltare gli altri interventi – soprattutto quello di Bettini – in differita. Lo faccio puntualmente il giorno dopo, grazie all’ottimo lavoro di Radio Radicale che nel giro di pochissimo ha pubblicato il video dell’assemblea sul suo sito. Ascolto la registrazione sempre in compagnia del mio paradosso, arricchito da nuove perplessità, riprendendo da dove mi ero fermato. Finalmente arriva il turno di Goffredo Bettini.

Lo spessore è quello di sempre, la gestualità, la retorica, le citazioni colte. Gozi al suo fianco annuisce con la testa per tutto l’intervento, ma in quel momento sembra più un metronomo che un essere vivente. Tuttavia, l’impressione è quella di ascoltare il ruggito di una fiera costretta ad esibirsi in un circo e controllata a vista dal domatore. Non me ne voglia Goffredo, ma più si è persona ricca di contenuti e di passioni e più risulta evidente quando quei contenuti e quelle passioni vengono silenziati dal freddo calcolo.

Ma persino nello spazio ristretto di un circo, una fiera può riuscire ad emettere il suo ruggito, prima di silenziarsi allo schiocco della frusta. Così arriva persino qualche critica a “Leopolda S.p.a.” e al suo leader, specie sul metodo e sulla selezione della classe dirigente. Critiche anche alla “vecchia ditta”, ma come rinnovato attacco a quei vecchi compagni di partito con cui già era in contrapposizione ai tempi del “Lingotto”, quei compagni che in nome del potere affossarono il primo PD e che probabilmente oggi rimpiangono amaramente quella scelta. Nell’aria riecheggia l’eterna lotta tra le due sinistre, l’idealismo contro il pragmatismo, una sintesi mai riuscita che oggi resta esercizio accademico, essendo entrambe le visioni superate dagli eventi e dall’avvento di nuovi soggetti come il Movimento5Stelle e la stessa “Leopolda S.p.a.”.

Il ruggito strozzato della fiera riporta poi all’uomo e alla sua solitudine, un tema caro a Bettini e a tutti quelli che nascono con la sua stessa sofferenza atavica, come il sottoscritto. Un lascito di una politica d’altri tempi, quella dove l’essere umano con i suoi sogni, le sue ambizioni e le sue sofferenze erano la calcomania del pensiero. Quell’analisi lo porta naturalmente a parlare dei profughi, di quelli che arrivano dal mare ma anche di quelli che abbiamo in casa, che nascono e vivono in mezzo a noi. Solitudini a cui non siamo più in grado di dare delle risposte, siamo noi dei grigi militanti fedeli alla “vecchia ditta” o degli allegri supporter di “Leopolda S.p.a.” con magliette e spillette colorate.

Così, mentre passano altri interventi, il mio paradosso mi suggerisce di ritornare a quelle solitudini, al motivo per cui scelsi di non andare a controllare le uova delle tartarughe della Patagonia. Fossi rimasto ad ascoltare di persona il resto dell’assemblea, magari avrei chiuso il tablet, avrei scritto un “pizzino” di pugno e lo avrei fatto arrivare in presidenza, un gesto d’altri tempi rivolto a un’intelligenza d’altri tempi. E avrei scritto questo: “Caro Goffredo, prima di decidere stagionali posizionamenti – come sai i leader vanno e vengono –  io penso che a quelle solitudini dovremmo offrire delle risposte, a quelle solitudini dovremmo offrire dei sogni, a quelle solitudini dovremmo offrire delle nuove idee in cui credere, perché quelle solitudini possano diventare, un giorno, comunità. A quelle solitudini dovremmo dare quel partito che non c’è”.

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