Finanza
Il “J’accuse” di Bankitalia e le quattro banche “troppo piccole per fallire”
La lettura del testo dell’audizione di Carmelo Barbagallo, capo della vigilanza di Banca d’Italia, di fronte alla Commissione Finanze della Camera dei Deputati, suscita sentimenti e pensieri contrastanti. Un sentimento positivo è il senso di patriottismo per l’Italia che si difende da quella stessa Europa che ha fondato. Le parole di Barbagallo contro la scelta europea del bail-in e le accuse di non aver ascoltato le proposte di Banca d’Italia fanno impallidire, per la loro pacatezza e copertura, i berci più beceri che i nostri populismi rivolgono all’Europa. Un sentimento buono è l’orgoglio di questa Banca d’Italia, Primula Rossa della vigilanza bancaria di lignaggio nobile, dei tempi di Baffi e Sarcinelli, contro la vigilanza sanculotta dell’Europa di oggi, quella becera di Dijesselbloem, l’olandese volante che da ministro delle finanze del suo paese per primo indicò la via, azzerando dalla sera alla mattina il debito subordinato di SNS, una banca in ristrutturazione. Purtroppo, però, ognuno di questi sentimenti richiama il suo opposto, ed ogni medaglia, anche quelle appuntate sul petto, ha un suo rovescio. E queste contraddizioni si avvertono soprattutto perché ogni parola di cautela e preoccupazione sul futuro richiama incertezze e sensi di colpa sul passato. In pratica, pare che Banca d’Italia renda conto di tutti gli aspetti della regolamentazione del risparmio (stabilità e trasparenza), e allo stesso tempo se ne vanti e se ne scusi.
I pensieri, poi, sono più densi di contraddizioni dei sentimenti. La descrizione degli approcci possibili alle crisi bancarie è estremamente chiara. “Il risanamento di banche in crisi può essere finanziato con tre diverse modalità: fondi pubblici, risorse interne – di azionisti e creditori – della banca, risorse provenienti da altre banche”. Ma ben presto a questa chiarezza si sostituisce un giro di vizi logici, che conducono a un’unica verità chiara: la procedura di risoluzione di gruppi bancari in crisi non è affatto chiara. Ecco come si sviluppa il circolo vizioso del ragionamento. Il risanamento con fondi pubblici “può essere giustificato nei casi in cui la crisi assume natura sistemica”. Negli altri casi c’è il bail-in, cioè il salvataggio pagato con i soldi di azionisti e creditori, con l’esclusione dei depositi inferiori a centomila euro. Ma Barbagallo ci dice che il “bail-in può acuire – anziché mitigare – i rischi di instabilità sistemica provocata dalla crisi delle singole banche”. Ma se il rischio è sistemico, il salvataggio non spetta i fondi pubblici? Infine c’è il salvataggio da parte delle altre banche, cui abbiamo assistito nel caso delle quattro banche di cui si discute in questi giorni. Ma qui il rischio sistemico è richiamato dalle banche stesse, che il giorno dopo l’accordo di salvataggio cantavano il peana di aver evitato una crisi sistemica. Ma se le banche hanno accondisceso al salvataggio per un rischio di crisi sistemica, il salvataggio non sarebbe dovuto ricadere sui fondi pubblici?
Insomma, il rischio sistemico è l’araba fenice: che ci sia ciascun lo dice, cosa sia nessun lo sa. E allora come si riconosce una crisi sistemica, quella in cui i fondi pubblici devono intervenire? Uno scenario di crisi sistemica lo descrive proprio Barbagallo. “Con la liquidazione ‘atomistica’ non sarebbe stata assicurata la continuità delle funzioni essenziali delle quattro banche; alle 200 000 piccole imprese affidate si sarebbe dovuto chiedere il rientro immediato, con danni ingentissimi per le economie locali: sarebbero stati tutelati i soli portatori di depositi garantiti, sacrificando i crediti di un milione di risparmiatori e i posti di quasi seimila lavoratori, con una devastante distruzione di valore”. Ecco la descrizione di uno scenario di rischio sistemico che neppure un film della saga di Mad Max potrebbe proporre meglio. E c’è una importante novità in questa descrizione. Queste quattro banche sembrano essere “troppo piccole per fallire”, rovesciando il concetto che conosciamo nella letteratura, e riconosciuto nella regolamentazione, delle banche “too-big-to-fail”, troppo grandi per fallire.
La comparsa delle banche “troppo piccole per fallire” solleva quesiti interessanti. Innanzitutto, la crisi delle quattro banche avrebbe potuto essere sistemica per il loro numero? Le crisi delle piccole banche possono creare una crisi sistemica perché attaccano in branco come le iene? Si sa che le iene possono sopraffare un leone. E poi: se alle banche troppo grandi per fallire si richiede di accantonare più capitale (con un requisito che a regime arriverà al 18%) , alle banche troppo piccole per fallire non verrà chiesto nulla? E tra quelle troppo grandi per fallire e quelle troppo piccole per fallire resterà qualche banca per la quale si possa escludere un impatto sistemico?
Queste sono domande per gli esperti e per i regolatori. Tornando a Banca d’Italia, questo richiamo al rischio sistemico diventa un boomerang del ragionamento. Nella sua audizione Barbagallo ribadisce la sua posizione, tecnica, contro la Commisione Europea per il fatto che questa abbia considerato aiuto di stato un intervento del Fondo Interbancario dei Depositi, che pubblico non è. E’ una posizione debole e contraddittoria. Infatti, se Banca d’Italia riteneva che il salvataggio delle quattro banche fosse una questione di rischio sistemico avrebbe dovuto rivendicare l’aiuto pubblico, anziché addentrarsi in questioni di lana caprina per negarlo.
Anche la rivendicazione della posizione di Banca d’Italia sulla gradualità dell’implementazione della normativa è una moneta a due facce. Da un lato è giusto che una nuova normativa non venga imposta a investimenti che sono stati fatti prima dell’entrata in vigore della normativa stessa. Infatti, se i risparmiatori avessero saputo della nuova normativa avrebbero potuto scegliere di non sottoscrivere i titoli delle banche, o richiedere un premio per il rischio superiore. Questo è il metodo Dijesselbloem: un regolatore si sveglia e cambia le regole come pare a lui. Dal lato opposto traspare la preoccupazione che il risparmio italiano non fosse pronto a questa svolta per carenze di supervisione del passato. Nell’appello di Banca d’Italia ad applicare la nuova regolamentazione solo ai nuovi titoli traspare un messaggio al mercato tutt’altro che rassicurante: d’ora in poi si fa sul serio, segno che nel passato si è scherzato. E questa preoccupazione prende forma esplicita nella posizione, ribadita più volte, a favore di bandire il collocamento dei titoli rischiosi di ogni banca presso la propria clientela: quello che su queste colonne abbiamo definito “il capitale marcio”. Su questa posizione non si può non essere d’accordo con Barbagallo.
Per finire, Banca d’Italia rivendica con forza la sua pratica passata di gestione delle crisi bancarie, che è consistita nell’utilizzo del Fondo Interbancario di Garanzia dei depositi per il salvataggio delle banche, più che per il rimborso dei depositi: una pratica che Barbagallo rivendica “dall’approvazione della legge bancaria del 1936, a oggi”, che “ha consentito la continuità aziendale, protetto il risparmio, tutelato le funzioni essenziali delle banche”, ha raggiunto, “in sintesi, i medesimi obiettivi che sono ora alla base della normativa europea”, e soprattutto, “senza che i risparmiatori italiani perdessero una lira o un euro in relazione a crisi, anche gravi, di singoli intermediari”. Materiale su cui si può discutere, e si discute tra tecnici: se il fondo di garanzia dei depositi debba anche avere un occhio a garantirli a monte, salvando le banche, piuttosto che a valle, rimborsando i depositanti. Ma non c’è dubbio che con parole di questa durezza da oggi in poi Bankitalia ha dichiarato di aver il mal d’Europa.
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