UE
Il dilemma di Tsipras, tra austerità e coerenza
Pubblicato su Affari Internazionali (27/05/2015)
di Eleonora Poli e Stefano Pioppi
A quasi quattro mesi dalla formazione del governo di Alexis Tsipras, composto da Syriza (149 seggi) con la partecipazione dei Greci Indipendenti di Anel (13 seggi), è tempo d’un primo bilancio, passata la ‘luna di miele’ tradizionale di un governo con la sua opinione pubblica dei primi cento giorni.
L’esecutivo greco avrebbe dovuto basare la propria azione su un programma politico che, così come presentato a Salonicco nel settembre 2014, avrebbe dovuto promuovere un radicale cambiamento rispetto al passato e attuare misure di anti-austerità per contrastare la crisi economica ed umanitaria in cui il Paese è sprofondato.
Tuttavia, con una riduzione del Pil dello 0.2 % dal gennaio 2015, e un tasso di disoccupazione che si attesta oltre il 25%,il più alto dell’Unione Europea (Ue), e una previsione di crescita solo dello 0,5%, il governo greco sembra ben lontano dal gestire in maniera efficiente la crisi economico-finanziaria.
Mentre il Fondo monetario internazionale (Fmi) e i vertici europei spingono ancora la Grecia verso programmi di austerità, l’euro-criticismo e il rilancio dell’economia greca su cui si era basata la retorica di Syriza, potrebbero non essere sufficiente a mantenere il consenso elettorale, se Tsipras non sarà in grado di promuovere effettive riforme.
Il programma e la sua attuazione: un gioco a somma zero
Il programma di Salonicco prevedeva infatti un forte incremento dell’assistenza sociale, specialmente per le categorie più colpite dalla crisi, e si basava essenzialmente su quattro pilastri: affrontare la crisi umanitaria, riavviare l’economia, rilanciare l’occupazione e trasformare il sistema politico.
Queste misure si incentravano principalmente sull’introduzione di garanzie sociali come l’aumento del salario minimo e del sussidio di disoccupazione, un migliorato accesso alla sanità pubblica per i meno abbienti e la regolamentazione del mercato del lavoro con l’estensione dei contratti collettivi.
Secondo Tispras, il governo greco avrebbe potuto finanziarie tali azioni grazie ad una serie di manovre fiscali, come l’introduzione di una tassa patrimoniale, una maggiore tassazione sulle transazioni finanziarie e la proibizione dei derivati come Swap e Cds, ma non solo.
Lo stato avrebbe infatti dovuto tagliare la spesa militare e i costi della politica, abolendo parte dei privilegi della Chiesa Ortodossa Greca e nazionalizzando alcuni servizi.
Tuttavia, sebbene a marzo, il Parlamento greco abbia approvato un “pacchetto anti-povertà” stimato intorno ai 200 milioni di euro, che prevede la distribuzione di sussidi alimentari (buoni pasto) a circa 300.000 persone, indennità di affitto per 30.000 famiglie e la fornitura gratuita di energia elettrica ai nuclei familiari più poveri, gli altri punti del programma, di carattere economico e non, sono ben lontani dalla loro attuazione.
L’Eurogruppo e il mancato rilancio dell’economia greca
La ragione di tali ritardi va imputata alla necessità del governo di rinegoziare il debito. Con un debito pubblico che, secondo le stime della Commissione europea, nel corso del 2015 supererà il 180% del Pil, la Grecia deve in totale 21 miliardi di euro all’Fmi e 27 miliardi alla Banca centrale europea (Bce).
Alla fine di febbraio, Tsipras e il ministro dell’Economia, Yanis Varoufakis avevano negoziato l’estensione del piano di salvataggio per Atene, il “Master Financial Assistance Facility Agreement” (Mffa) dello European Financial Stability Facility che sbloccava fondi per 1,8 miliardi di euro, a condizione che Atene trovasse un accordo con i suoi creditori sulle riforme da attuare.
All’estensione dell’Mffa, si deve poi aggiungere un effettivo cambiamento della politica della Bce che, già a gennaio, ha annunciato l’aumento del ricorso al quantitative easing (per il valore di 60 miliardi, fino a settembre 2016).
La Bce ha inoltre più volte alzato il tetto dell’European liquidity assistance per la concessione di liquidità agli istituti di credito ellenici. Tuttavia,entro il 5 giugno, il governo ellenico dovrà pagare all’Fmi 300 milioni di euro, la prima tranche di quattro, in scadenza nel corso del mese, per un totale di 1.5 miliardi di euro.
Al momento, Syriza ha respinto la richiesta venuta dalle fazioni più estremiste del partito che chiedevano di lanciare un referendum per respingere ogni accordo con i creditori internazionali che prevedesse ulteriori riforme di bilancio.
Tuttavia, Tsipras rischia di dover abbandonare le sue idee di rilancio economico. Infatti, perché la Grecia possa incassare almeno una parte del fondo di salvataggio da 7,2 miliardi previsto dal cosiddetto Brussels Group, nuova versione della troika, un accordo tra le parti sulle riforme economiche da attuare è necessario.
Il dilemma della coerenza
In effetti, se l’individuazione di un accordo tra la Grecia debitrice ed i creditori internazionali è tutt’ora nell’interesse dell’Fmi, degli Stati europei, esposti nei confronti di Atene per quasi 190 miliardi di euro e della Grecia, che senza l’appoggio internazionale rischia il default, questo presupporrebbe una sinergia d’intenti che al momento sembra difficile da realizzare.
Mentre l’Eurogruppo chiede un incremento della pressione fiscale, riforme sul mercato del lavoro e sulle pensioni, Atene, procede in senso opposto, volendo dare priorità alla necessità di far fronte alla crisi umanitaria.
Un mancato rispetto degli impegni assunti, ed una eventuale “Grexit” avrebbero senza dubbio conseguenze catastrofiche per il Paese. Ma l’attuazione di un programma di riforme più inclini all’austerity, con tagli considerevoli della spesa pubblica e sociale, potrebbe costare a Tsipras la propria legittimità e al Paese la stabilità politica.
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