UE

Il danno di dirsi Charlie

10 Gennaio 2015

Tellurici i fatti di Parigi. Idonei a scatenare una reazione istintuale dell’analisi che spesso produce un sequestro di senso. Parigi, un giornale satirico dalla cifra anarchico libertaria. Vignette dissacranti, sempre atee. L’obiettivo di un attacco terrorista, che è stato in grado di imprimere al dibattito l’ambiguo alfabeto del noto “scontro di civiltà”, categoria di interpretazione partorita dall’intelligence statunitense. Inni alla laicità che ripropongono il problema etnocentrico delle narrazioni occidentali, focalizzate sulla costruzione storica di una propria identità in opposizione ad un Oriente sempre rappresentato come barbaro e retrogrado. Un attacco gravissimo alla libertà di espressione, si legge più o meno ovunque. Da tre giorni siamo tutti Charlie. Ma dietro questa monolitica rappresentazione le contraddizioni sono tante. A partire dalla rimozione di un dato: gli attentatori vengono dalle periferie parigine. Da quelle banlieues in cui l’esclusione sociale è cocente realtà quotidiana. Miguel Mellino, docente di antropologia culturale e di studi postcoloniali, della rete di ricercaotri DecoKnow che si occupa di pratiche di “decolonizzazione dei saperi”, lo dice senza ambiguità: «No, non mi sento Charlie».

Perché è “pericoloso” dire all’indomani dei fatti di Parigi “Je suis Charlie”?

Dire “Je suis Charlie” è alimentare una lettura poco complessa degli eventi di cui siamo stati spettatori. Moltissime delle analisi che sono circolate in questi giorni hanno veicolato una narrazione semplice: attacco alla laicità, attacco alla libertà di espressione, attacco all’Occidente. Si è soprasseduto con disinvoltura a un dato fattuale:gli attentatori sono cresciuti nelle periferie di Parigi. Nonostante questo non è stata messa in discussione la nostra visione del razzismo con i correlati problemi di esclusione sociale. Se la sinistra non si chiede più, di fronte a un fatto del genere, perché non riesce a parlare ai settori più esclusi della popolazione rischia solo di restare intrappolati tra due mostri: le politiche sempre più ultraliberiste dell’Europa e la chiusura identitaria. Dire “Je suis Charlie” è non cogliere bene questa crepa che ci si è parata davanti.

In che modo parlare di attacco alla libertà di espressione può diventare fuorviante rispetto all’obiettivo della comprensione degli accadimenti?

Perchè è necessario chiedersi di quale libertà di espressione stiamo parlando se la notizia dei morti al centro di Parigi rimbomba ovunque da giorni mentre i giornali dedicano spazi esigui, per non dire nulli, a proposito di quel campo di concentramento a cielo aperto che è la striscia di Gaza. Mi pare, ancora che la libertà di espressione latiti, ad esempio, senza grandi scandali, a proposito dei respingimenti in mare, che non sono altro che prodotto diretto delle politiche criminali dell’Unione europea. Siamo, io credo, in presenza allora di una pericolosa autocensura che agisce come ferocissimo meccanismo di normalizzazione. Si dovrebbe ragionare invece su come agisce la sindrome dell’enclave su una minoranza che si sente accerchiata dal dispositivo securitario sul quale si fonda il neoliberismo.

Cosa è che non viene pronunciato in questi giorni? Quale è il contenuto rimosso?

Che il mondo da 20 anni vive su un fronte di guerra che va dal Corno d’Africa all’Afghanistan. Ed è una guerra in cui l’Occidente non può in alcun modo essere rappresentato solo come vittima.
Si dice attacco ai diritti fondamentali, ma si dimentica di dire che questi diritti sono stati il prodotto di lotte sociali. E, soprattutto, si dimentica di prendere in considerazione il fatto che invece di diritti essi sono spesso privilegi che non riguardando un’ampia parte della popolazione, esclusa soprattutto a causa di una iniqua distribuzione delle ricchezze. Non approfondire questi aspetti significa dimenticare la lezione di Benjamin, “dove c’è civiltà c’è barbarie”.

 

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