UE
Faciloneria e assenteismo: ecco perché i rapporti fra Renzi e la Ue non vanno
«Complotto anti-italiano», «Italia svantaggiata a Bruxelles», e chi più ne ha più ne metta. La vulgata sulla posizione del Belpaese nella “capitale” d’Europa è questa. Ma è una leggenda sostanzialmente falsa, che nasconda una verità diversa: dentro l’Unione Europea il primo grande “nemico” dell’Italia è l’Italia stessa. Salvo qualche eccezione ai tempi di Mario Monti ed Enrico Letta, da anni l’Italia latita a Bruxelles. E dire che se c’è una piazza in cui la massiccia presenza, la rete di contatti, lo scambio costante e continuo di informazioni è cruciale, è proprio questa.
Giorni fa ha fatto scalpore la notizia di fonti europee che lamentavano l’assenza di un vero interlocutore per Bruxelles a Roma. È vero. Manca, in effetti, quello che in gergo viene chiamato “sherpa”, l’uomo vicino al capo di governo che si occupa esclusivamente di Europa, l’uomo da chiamare in qualsiasi situazione. Ce l’hanno in tanti, non solo i “big” come Francia, Germania, Gran Bretagna, ma anche paesi come la Polonia o la Spagna, o anche la piccola Austria. È il vero ufficiale di collegamento, che ha un contatto più immediato e diretto con il capo del governo, perché gli siede accanto, nella capitale, di quanto può avere il rappresentante permanente. Gli sherpa chiamano due, tre, quattro volte a settimana negli uffici di Juncker. Non solo per risolvere crisi e problemi, anche, semplicemente, per confrontarsi, aggiornarsi e aggiornare sugli ultimi sviluppi. L’Italia, invece, si fa sentire, e con la gran cassa, quando i problemi diventano grandi, si passa subito al livello politico e scoccano scintille.
Molti accusano Matteo Renzi di capire poco l’Europa. Ma forse non è solo colpa sua, è anche di chi (non) lo consiglia – o forse lui non ascolta. Ha fatto storcere il naso a molti il fatto che il premier abbia soppresso la carica di ministro per gli Affari europei (che praticamente tutti gli altri stati membri hanno) per sostituirla con un sottosegretario, condannato a esser guardato, in quanto di rango inferiore, dall’alto in basso dai partner nelle riunioni.
Ai suoi primi vertici Ue Renzi del resto si fece notare per il suo arrivo in grande ritardo, mentre la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente francese François Hollande erano già da tempo in sala. Prima c’erano stati fitti incontri bilaterali o trilaterali, che Renzi apertamente snobbò. Ma è lì che si fanno i veri accordi. La scarsa conoscenza delle cose europee lo ha portato, nel 2014, a puntare al portafoglio sbagliato in seno alla Commissione Europea, quello del Servizio esterno (il “ministero degli Esteri” Ue). L’Alto rappresentante Federica Mogherini – almeno da un punto di vista Ue – fa un buon lavoro. Il problema è che la politica estera Ue è debole, e l’Alto rappresentante, che è anche uno dei vicepresidenti della Commissione Europea, non sempre può partecipare alle cruciali riunioni del collegio dei commissari perché in missione all’estero. Qualcuno aveva consigliato a Renzi di puntare su portafogli economici, o le politiche regionali (pieni di soldi), ma il premier preferì lo scintillio dell’alta carica. E oggi, sostengono, se ne pente.
Altro punto dolente, già ai tempi di Silvio Berlusconi, è che alcuni ministri disertano le riunioni a Bruxelles, mandando sottosegretari, a volte persino il solo ambasciatore. Un “campione” in materia è il ministro per le politiche agricole Maurizio Martina, avvistato nel 2015 in tutto quattro volte a Bruxelles. Stiamo parlando di dossier cruciali per l’Italia. Il collega agli Interni Angelino Alfano viene regolarmente, ma spesso se ne va in anticipo, e, sostengono alcuni osservatori, interviene poco durante le riunioni.
Del resto anche l’organizzazione a Bruxelles è carente. «I tedeschi hanno messo un “cane da guardia” in ogni direzione generale, che osserva tutti gli sviluppi dentro la Commissione passo passo e tiene Berlino al corrente», racconta una fonte comunitaria. Risultato: il governo tedesco è informato sul nascere di ogni iniziativa legislativa, ed è in grado di intervenire fin dall’inizio su iniziative che non gli convengono. Lo stesso fa la Francia.
L’Italia, invece, spesso dorme. Un paio di esempi? Il negoziato per l’accordo di libero scambio Ue-Corea è stato quasi ignorato a Roma, salvo accorgersi, ormai a un passo dalla firma, che recava svantaggi per il settore auto italiano. Troppo tardi, impossibile smontare o fermare l’intero accordo. Oppure il caso del brevetto europeo: solo a fine percorso l’Italia (erano i tempi di Berlusconi) si accorse che era stato introdotto il principio delle tre lingue in cui presentare le domande di brevetto (inglese, francese e tedesco). Il Cavaliere si imbufalì, e fece uscire l’Italia dal brevetto europeo (Renzi poi ha corretto il tiro).
La pessima abitudine, inoltre, di considerare Bruxelles come una pattumiera in cui scaricare i “trombati” nostrani ha riempito le delegazioni di europarlamentari italiani (con notevoli eccezioni, va detto) di peones frustrati che riempiono le caselle di posta elettronica dei giornalisti di polemicucce tutte italo-italiane, o addirittura regionali, e si segnalano per clamorose assenze. E così capita che, ad esempio, la delegazione del Pd (forte del 40% conquistato alle ultime europee) ha ottenuto appena quattro coordinatori per la commissioni parlamentari – che sono cruciali (e spesso più potenti dei presidenti delle commissioni) perché, ad esempio decidono chi fare relatore di un particolare dossier – contro i dieci dei socialisti tedeschi. A livello di rappresentanza – la nostra ha, certo, ottimi funzionari – spicca, viste le scarse risorse finanziaria, l’insufficienza di personale. Un esempio: alla rappresentanza tedesca (circa 10 volte il numero dei funzionari della nostra), a occuparsi del cruciale settore dei Trasporti sono in cinque, da noi uno solo.
Potremmo continuare con le lobby delle grandi categorie. Quelle tedesche hanno propri rappresentanti direttamente inseriti nella rappresentanza permanente della Germania, i grandi comparti industriali agiscono di concerto con il governo. Quelle italiane sono sparpagliate, spesso scoordinate. Peggio per le rappresentanze regionali: quella della Baviera ma anche della Catalogna sono macchine micidiali di lobbying a sostegno dei propri comparti economici, le nostre spendono soldi per cocktail e festicciole per assaggi dei soliti prodotto agroalimentari locali.
Infine, c’è un problema di fondo che si chiama sistema-paese. In Francia o in Germania, quando in ballo è un posto importante, la prima cosa che conta è che sia rispettivamente un francese o un tedesco a ottenerlo. François Hollande, socialista, sostiene Christine Lagarde, fedelissima di Nicolas Sarkozy, per un secondo mandato al Fondo monetario internazionale, ad esempio. Perché è l’unica francese che può ottenere quel posto. L’Italia no. Tutti ricordano la faccia storta di Giulio Tremonti alla notizia che un italiano, Mario Draghi, arrivava niente meno che al timone della Bce – con l’appoggio di Berlino, mica di Roma. E adesso che si prospetta la possibilità di avere l’ormai ex rappresentante permanente d’Italia Stefano Sannino, silurato da Renzi, alla direzione generale per l’Immigrazione – posto cruciale per l’Italia – a Roma si parla di “tradimento”, e gesto “anti-governativo” perché non è un uomo del premier. Non lamentiamoci se poi gli altri si fanno i propri interessi e l’Italia resta al palo.
*aggiornato alle 10:00 del 22 gennaio 2015
Devi fare login per commentare
Accedi