UE

Giorgia contro tutti e l’arrocco dell’UE di fronte al vento di destra

2 Luglio 2024

Le palle alla fine sono andate tutte in buca. Nonostante i dubbi, le perplessità e la contrarietà di alcuni, il negoziato tra governi e gruppi politici europei ha partorito le nomine ai ruoli più ambiti delle istituzioni comunitarie, i cosiddetti top jobs, al primo colpo, durante il Consiglio Europeo concluso venerdì scorso. O almeno, è stata portata a termine con successo la prima parte dell’operazione, perché ora, per la figura più eminente tra esse, Ursula Von der Leyen, è prevista la prova più difficile e rischiosa, ovvero il voto al Parlamento Europeo, che si terrà probabilmente il prossimo 18 Luglio nell’aula di Strasburgo. La collaudata alleanza tra Popolari, Socialisti e Liberali si è dunque riproposta anche all’inizio della presente legislatura, successivamente ad elezioni che ne hanno sì incrinato la maggioranza numerica nell’emiciclo continentale, ma non abbastanza per sovvertirla. Di fronte ad un relativo indebolimento, che si è rivelato però netto e preoccupante per alcuni importanti soggetti, i leader delle principali famiglie politiche europee hanno scelto di fare quadrato, confermare l’indirizzo generale della politica comunitaria, salvo lievi rettifiche, e perdere il minor tempo possibile in polemiche e manovre contro i principali candidati proposti dai primi negoziati. Conseguenti sono stati perciò il riconoscimento della vittoria elettorale del PPE e la nuova nomina della presidente uscente al vertice della Commissione, approvata con 25 voti su 27. Tra i voti mancanti, oltre a quello scontato di Viktor Orban, si è registrato quello più discusso di Giorgia Meloni, che si appresta quindi a diventare la mina vagante nel proseguimento del processo decisionale in UE, con conseguenze di cui ancora non è dato sapersi.

 

L’imperativo, per i kingmaker del nuovo assetto politico-istituzionale dell’UE, è stato fare presto. La necessità di chiudere al più presto il negoziato per le nomine, condivisa da quasi tutti i protagonisti in campo, è stata decisiva per il veloce esito del processo. Non si poteva rischiare di sforare nel semestre di presidenza ungherese, in partenza a Luglio, con tutte le possibili complicazioni del caso, e ancor meno poteva rischiare Emmanuel Macron di veder slittare le decisioni ad un momento in cui potrebbe risultare ulteriormente indebolito dalla probabilissima sconfitta alle elezioni legislative da lui indette a cavallo di giugno e luglio. Non è un mistero che fosse proprio lui, Macron, il principale ostacolo al mandato bis per Ursula Von der Leyen, con la quale i rapporti sono stati ultimamente altalenanti, mentre si udiva da Parigi il rumore del lavorio nell’ombra, ma neanche troppo, per una candidatura Draghi. Dati dei suffragi europei alla mano, però, si capiva subito che non era aria, e allora meglio dare via libera alla tedesca, che in fondo è buona per tutte le stagioni, tanto più che risultava ben accetta ai socialisti del connazionale Scholz, anch’egli pesantemente bastonato alle urne, e dello spagnolo Sanchez. Von der Leyen era, in fin dei conti, la candidata naturale a succedere a se stessa, oltre che per la mancanza di alternative, anche per l’innegabile performance positiva del PPE, con in testa proprio la tedesca CDU-CSU, unico gruppo politico dell’attuale maggioranza capace di incrementare i propri seggi, e neanche di poco, forte di 183 deputati.

 

Individuata la figura per Palazzo Berlaymont, anche per le altre la strada era aperta, secondo lo schema tradizionale del manuale Cencelli bruxellese. Registrato e presto abortito, per l’opposizione dei Socialisti, un debole tentativo da parte dei Popolari di opzionare la carica di Presidente del Consiglio Europeo per la seconda parte della legislatura e di garantirsi la presidenza del Parlamento per l’intero quinquennio, Antonio Costa, rispettato ex premier socialista portoghese, e Kaia Kallas, combattiva premier liberale dell’Estonia di chiara vocazione atlantista, ricevevano rispettivamente la nomina a presiedere il Consiglio e a ricoprire la carica di Alto Rappresentante per la Politica Estera, in seno alla Commissione. La popolare maltese Roberta Metsola, infine, pur senza formalizzare un’elezione che spetta al Parlamento, continuerà a presiedere l’assemblea legislativa continentale. Popolari, Socialisti e Liberali, quindi, come cinque anni fa. Un arrocco, secondo alcuni, ma era obiettivamente difficile presentare altre combinazioni partitiche con i numeri attuali, dati i veti di Socialisti, Liberali e perfino parte dei Popolari nei confronti dei Conservatori e le resistenze degli stessi Popolari all’inclusione dei Verdi. L’aspirazione del gruppo ECR, e soprattutto della sua presidente Giorgia Meloni, a vedersi riconosciuto un importante ruolo, in virtù di un ottimo successo elettorale e della forza della sua leadership alla guida del governo italiano, andava quindi frustrata. Non è da escludere, peraltro, che la scelta di non farle toccare palla sia stata dovuta alla precisa volontà da parte dei partners di ridimensionarne il peso, nelle ultime settimane particolarmente enfatizzato sui media, da parte italiana e non solo.

 

Ma che cosa voleva e vuole, realmente, la nostra premier? La leader di FDI è giunta al vertice di Bruxelles con la reputazione di unica leader di governo con una maggioranza interna forte e stabile, tra i principali stati dell’Unione, rafforzata dall’immagine di efficienza e capacità diplomatica, veicolata in occasione del G7 in Puglia. I venti mesi di governo a Roma ne hanno evidenziato le doti di realismo in politica estera e nei rapporti con l’UE, in netto contrasto rispetto alla retorica incendiaria dei tempi dell’opposizione, che pur qualche volta continua a far capolino, centellinata con parsimonia. I rapporti con Ursula Von der Leyen sono sempre apparsi ostentatamente ottimi, nonostante la diversità di appartenenza politica, e non è un mistero che la buona intesa tra le due potesse essere, nei piani di Giorgia Meloni, la premessa per un coinvolgimento dell’italiana negli assetti di comando dell’Unione. Per mesi, dagli ambienti di FDI, è stata suggerita nel pubblico dibattito l’ipotesi di un ribaltone di maggioranza in UE, con l’ECR in partnership con i Popolari e i Liberali, al posto dei Socialisti, e pazienza se dal PPE le sponde ottenute sono state ben poche. La nostra premier contava almeno di partecipare alle trattative da pari a pari, in quanto capo di governo del terzo paese dell’Unione, al fine di far valere la sua voce critica delle pratiche dell’establishment brussellese, guadagnarsi alleati e contribuire a ritardare il momento delle nomine, mettendo in risalto soprattutto l’agenda programmatica, di cui si proponeva di guidarne la revisione, alla luce della tendenza elettorale verso destra riscontrata alle ultime elezioni. E, a tal prezzo, offrendo magari il suo voto in Consiglio alla tedesca. Non le è stato permesso, e lo aveva fatto capire chiaramente uno dei due mediatori del PPE, Donald Tusk, non a caso nemico giurato dei Conservatori per dinamiche di Varsavia, che pochi giorni prima del vertice metteva in chiaro come la maggioranza esistesse anche senza FDI.

 

 

Di fronte al muro eretto contro di lei dai partner europei, la reazione della nostra premier è stata caratterizzata da un mix di rabbia controllata e atteggiamento di sfida da rilanciare nei confronti del c.d. establishment, anche a scopo di segnalare ai colleghi che, se non cooptata a pieno titolo nel club dei decisori, può sempre riattivare la modalità sovranista – euroscettica adottata fino a due anni fa. La performance alle camere della scorsa settimana, tra strali e recriminazioni rivolte all’UE e agli altri leader continentali, non senza abbondante profusione di retorica, ne è stata evidente dimostrazione, e ha anticipato la scelta di voto in Consiglio. Una postura di stampo nazionalista e anti-sistema, che probabilmente si addice a Meloni meglio di quella dialogante, e che ha il duplice vantaggio tattico di compattare il proprio elettorato e di non lasciare spazio ai messaggi ancor più duri di Matteo Salvini. Eppure, al di fuori delle esigenze di propaganda politica interna, i voti espressi in dissenso a Bruxelles non possono che evidenziare una sconfitta diplomatica della Presidente del Consiglio, che non è riuscita a trascinare dalla sua parte nessun altro capo di governo, eccetto il paria Orban. Persino il ceco Petr Fiala, anch’egli del gruppo ECR, ha votato a favore delle figure proposte, e lo stesso ha fatto la Slovacchia del convalescente Robert Fico (rappresentata per l’occasione dal presidente Pellegrini), in odor di riammissione nel gruppo socialista. Vero è che la trattativa prosegue, e se i voti contrari a Costa e Kallas sono serviti a contestare il metodo delle nomine, l’astensione su Von der Leyen è stata probabilmente finalizzata a tenere alta la posta riguardo la scelta del portafoglio da assegnare all’Italia all’interno della Commissione, in vista del prossimo voto del 18 luglio, a cui la tedesca sarà sottoposta nell’aula di Strasburgo. Ma, come sa benissimo anche la stessa Meloni, il positivo esito della trattativa e i buoni rapporti con l’esecutivo comunitario sono pure nell’interesse italiano, con una procedura di infrazione per deficit eccessivo alle porte, non solo in quello della presidente appena nominata, mentre le fibrillazioni dei Polacchi all’interno del gruppo dei Conservatori rischiano di indebolire la sua posizione negoziale.

 

La sessione plenaria in cui il Parlamento Europeo dovrà decidere se eleggere, a maggioranza assoluta, Ursula Von der Leyen per un secondo mandato alla presidenza della Commissione Europea, è lo scoglio su cui ancora potrebbero andare ad infrangersi i precari equilibri dell’Unione. Sulla carta la coalizione di Popolari, Socialisti e Liberali avrebbe i numeri per confermare l’ex ministra della difesa di Berlino, con in dote 399 voti, in virtù di una maggioranza richiesta di 361, ma i franchi tiratori, sempre presenti in un voto segreto, preoccupano. Tanto più che rischiarono di rovinare la festa alla Presidente anche cinque anni fa, e che nello stesso PPE la sua candidatura a Spitzenkandidat non era stata immune da voti contrari. Urgono pertanto altri voti da utilizzare come paracadute, da ricercare al di fuori dei tre gruppi sopra citati, ma le alternative non sono molte. Il feeling di Von der Leyen con Meloni, come detto, farebbe pensare ad una probabile trattativa per far arrivare nell’urna i 24 voti di FDI, in cambio del riconoscimento di un commissario di peso all’Italia, e possibilmente di una strategica vicepresidenza esecutiva. L’altra carta da giocare sono i Verdi, forti di 53 deputati, che pur pesantemente sconfitti alle elezioni del 9 giugno, si dicono disponibili a entrare in maggioranza per salvare il Green Deal, anche in parte rivedendolo, se necessario. Entrambe queste opzioni hanno però il difetto di presentare la contrarietà incrociata, rispettivamente dei Socialisti, decisi a sbarrare la strada alla premier italiana, e di parte dei Popolari, per nulla convinti di percorrere pezzi di strada insieme ai Verdi, responsabili degli eccessi di ideologia ambientalista degli ultimi anni. E’ a tutti gli effetti un rebus, la cui risoluzione verrà prevedibilmente delegata direttamente alla presidente in pectore, la quale potrà anche racimolare qualche voto tra i tre deputati cechi del Partito Civico Democratico di Fiala e i cinque dello SMER dello slovacco Fico, che l’hanno appoggiata in Consiglio. Il rischio forte è che contrattare i voti di alcuni possa provocare l’aumento dei franchi tiratori nelle fila di altri, per cui ci si attendono negoziati attuati con cautela e riservatezza. Il 18 Luglio sapremo se assisteremo a un Ursula-bis, o se invece sarà tutto da rifare, per lo psicodramma di molti e, forse, il beffardo sorriso di qualcuno a Palazzo Chigi.

 

Al di là delle nomine ai top jobs, appaiono inequivocabili la delicatezza del momento storico per l’Unione Europea, e la cronica difficoltà, sia per le istituzioni comunitarie, che per i ventisette stati membri, a rispondere alle impegnative sfide imposte dal contesto geopolitico e dalle trasformazioni tecnologiche, economiche e sociali. Ulteriore conferma è giunta dall’esito del primo turno delle elezioni legislative francesi di domenica, che hanno confermato la prevalenza di suffragi per la destra nazionalista a tinte populiste del Rassemblement National di Marine Le Pen e sancito la netta sconfitta di Macron, sopravanzato anche dal Nuovo Fronte Popolare di sinistra, anch’esso non privo di tendenze demagogiche. Non è un mistero che un’eventuale Francia a guida RN, con il giovane Jordan Bardella a palazzo Matignon, rischierebbe di provocare scosse telluriche non lievi agli equilibri dell’Unione, per il combinato disposto tra il cruciale ruolo di un peso massimo quale è Parigi, le sue croniche difficoltà macroeconomiche, i redivivi vincoli di bilancio del nuovo Patto di Stabilità e gli esplosivi programmi della baldanzosa destra d’oltralpe, non solo sul versante economico. Una volta che venisse aperta la breccia nella moderatamente rigorosa governance dei conti pubblici di matrice teutonica, non è dato sapersi quali e quanti altri paesi potrebbero infilarvisi, ma di certo a Roma si osserverà la situazione con notevole interesse. L’asse franco-tedesco è debole forse quanto mai lo è stato in passato, e si è visto anche con il maldestro tentativo di modificare l’Agenda Strategica dell’Unione, durante il Consiglio Europeo della scorsa settimana, stoppato con forte irritazione degli altri partner, con Giorgia Meloni in prima fila. La quale, in un tal contesto, potrebbe davvero far acquisire un ruolo sempre più importante all’Italia, a condizione, forse, di evitare di recitare la parte dell’offesa e agire maggiormente sulla base delle logiche diplomatiche che di quelle della propaganda. Le partite in campo sono molteplici, come si è visto, e solo il prossimo 18 Luglio si potrà valutare con maggior chiarezza l’esito delle elezioni europee di giugno. Di certo, in questa calda estate che vedrà svolgersi, proprio questa settimana, anche le elezioni in Gran Bretagna, e in cui entrerà nel vivo la campagna presidenziale americana, non ci si potrà annoiare.

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