Partiti e politici
Carlo Fidanza: “Vi racconto Giorgia, la storia di FdI e anche un po’ di me”
Capodelegazione di Fratelli d’Italia al Parlamento europeo, vanta una lunga carriera politica iniziata da giovanissimo, a Milano nelle fila del Fronte della Gioventù e del Movimento Sociale Italiano. Lo incontro a Milano, stiamo insieme per oltre un’ora, non si risparmia e mi racconta la sua lunga esperienza politica dagli inizi fino ad oggi. Il cuore dell’intervista riguarda l’uomo, il politico, e il partito di cui fa parte, solamente un accenno alle sue inchieste giudiziarie di cui si è scritto già molto.
Chi è Carlo Fidanza nella vita privata?
Due figli, un maschio di 14 e una femmina di 12 anni, mia moglie fa l’educatrice in un istituto professionale. Per fortuna riesce a non portarsi a casa i problemi che vive a scuola, cosa tutt’altro che scontata visti i casi difficili di molti ragazzi. Un cane, un bulldog francese, di nome Tyrion… come il nano del Trono di Spade, una delle mie serie preferite. Questo è il mio stato di famiglia. Per il resto mi divido tra Milano, Bruxelles e Strasburgo con ritmi frenetici ma quando sono in città ho una vita normalissima: gli amici del quartiere, l’oratorio e il chiosco sotto casa. L’unico spazio di libertà che cerco di preservare da tutti gli impegni è l’Inter, che seguo in casa e spesso anche in trasferta. Una passione, o meglio una malattia, che incide moltissimo sul mio umore. L’ho trasmessa a mio figlio, mentre per reazione mia figlia è diventata milanista come la mamma. Io che non amo i tatuaggi, uno però ce l’ho: un simbolo della Beneamata, stampigliato dietro alla spalla dopo il Triplete del 2010. Una scommessa con gli amici interisti di sempre, anche loro tatuati nella stessa occasione.
Hai iniziato a fare politica da giovanissimo, dove nasce questa passione e quali sono gli ideali che spingono un giovane ragazzo a iscriversi al Fronte della Gioventù?
Ho iniziato più o meno a 15 anni, all’inizio ero solamente un simpatizzante di destra poi Tangentopoli e le stragi di mafia del ‘92 mi diedero la spinta verso la militanza attiva. Anni dopo scoprii che anche Giorgia (Meloni, ndr) aveva avuto la stessa scintilla. Eppure non era facile trovare il coraggio di varcare il portone blindato della storica sede di via Mancini. Ci pensarono altri a farmi rompere gli indugi. Correva il novembre 1992, c’era un movimentismo di sinistra ancora abbastanza radicale, quando fuori dal mio liceo – il Leonardo Da Vinci, in zona Tribunale – vidi una classica scritta di colore rosso che recitava: “colpirne uno, per educarne cento”. Ho capito solo pochi giorni dopo che quell’uno ero proprio io. Lo ricordo come se fosse ora: era un lunedì, l’Inter aveva pareggiato il derby con gol da fuori area di De Agostini e papera di Antonioli. All’uscita da scuola vengo aggredito da alcuni “compagni”, ampiamente fuori corso, della vicina Facoltà di Scienze Politiche. Ne esco con la faccia tumefatta, passo tutto il pomeriggio al pronto soccorso del Policlinico dove il medico (di sinistra), mentre si sincerava delle condizioni della mia retina, mi consigliava di leggere attentamente i diari di Bottai per capire quanto fosse sbagliato il fascismo. “Ok, ma la retina è a posto?”, gli chiedevo. Da quel momento, un po’ per senso di protezione e un po’ per rivendicare il diritto di professare le mie idee liberamente, decisi di varcare quel portone e di iscrivermi al Fronte della Gioventù. In questo senso, se l’intenzione di chi mi ha aggredito fu quella di dissuadermi, crearono l’esatto opposto.
L’anno successivo sarei diventato rappresentante degli studenti, il primo dichiaratamente di destra dagli anni ‘60. Nella primavera del 1994 il mio battesimo del fuoco con la politica “dei grandi”: invitai Ignazio La Russa – all’epoca appena eletto Vicepresidente della Camera – a tenere un intervento a scuola, quelli di sinistra incredibilmente disertarono lasciando il palco tutto a lui, che ne uscì tra due ali di studenti entusiasti. Con lui non sempre abbiamo la stessa visione sulle vicende interne del partito ma c’è stima e affetto reciproco e il tutto nacque quel giorno.
E Giorgia Meloni? La conosci da quasi 30 anni, avete iniziato insieme al Fronte della Gioventù, ci racconti la Giorgia degli esordi?
All’inizio facevamo una militanza parallela in due città diverse, quindi non ci conoscevamo, ci siamo incontrati le prime volte a qualche corteo nazionale studentesco, organizzato da una sigla che lei animava a livello romano, che poi noi cercavamo di replicare nelle altre città. Si chiamava “Gli Antenati”, era un coordinamento studentesco che aveva lo scopo di allargare la base, coinvolgendo nella protesta verso i governi e i ministeri dell’istruzione di allora, anche chi non era iscritto al Fronte. Siamo poi diventati rivali e amici con l’ormai famigerato congresso nazionale di Azione Giovani, il movimento giovanile di An che aveva preso il posto del FdG. Era il 2002 quando venimmo chiamati a correre per la presidenza l’una contro l’altro, avevamo 25-26 anni, io più vecchio di quattro mesi. Eravamo i capifila di due correnti contrapposte, che avevano i propri riferimenti nel partito: io nella “destra sociale”, di Alemanno e Storace, lei nella “Destra protagonista” di Gasparri e La Russa insieme ai “gabbiani” di Rampelli. Alleanza Nazionale non faceva congressi, le correnti dei cosiddetti colonnelli si confrontavano sui territori ma non si sfidavano per la leadership perché il leader era uno solo per tutti: Gianfranco Fini. L’unico momento in cui si sono in qualche modo contate è stato il congresso che doveva scegliere tra me e Giorgia, anche se tutti a parole rivendicavamo l’autonomia del movimento giovanile. Leggo spesso che Fini fosse schierato con me: è vero, lui in quella fase storica pareva interessato a contenere Gasparri (non ricordo nemmeno bene perché), ma alla fine i pochi delegati che facevano riferimento a suoi uomini di fiducia votarono per Giorgia, anche per colpa di qualche esagitato tra i miei che lo criticó aspramente dal palco. Insomma, alla fine quel congresso si celebrò nel marzo 2004 a Viterbo, dopo due anni in cui percorremmo l’Italia da sud a nord per la nostra campagna interna. Vinse lei di un’incollatura, 16 voti – se non ricordo male – su più di 400 delegati. Al momento della sua proclamazione, all’apice della tensione tra le rispettive tifoserie, io decisi di salire sul palco e abbracciarla. Il messaggio fu chiaro a tutti: ci eravamo scannati ma eravamo un’unica comunità, dopo due anni di battaglie le armi andavano deposte, il futuro era di tutti noi uniti. In alcuni articoli e libri si fa risalire a quell’abbraccio addirittura la genesi di quello che stiamo vivendo oggi e anche di gran parte della classe dirigente apicale di FdI. Probabilmente è esagerato ma è vero che quel momento fu il riconoscimento della leadership di Giorgia, che le diede la possibilità di guidare un movimento giovanile di straordinaria vivacità in modo unitario e da lì di poter essere valorizzata per le sue grandi qualità nei passaggi istituzionali successivi: Vicepresidente della Camera nel 2006, Ministro della Gioventù nel 2008. Ancora oggi lei mi sfotte, mentre io non ne parlo mai volentieri (questa intervista è un’eccezione), anzi rosico ancora quando mi prendono il discorso. Tra noi due c’è sempre stato un rapporto molto forte, che nasce da quella contrapposizione dura, animata però da un profondo rispetto personale e da una lealtà di fondo. Lei nel suo libro “Io sono Giorgia”, ricordando quel passaggio, ha scritto di me parole bellissime e credo anche molto vere.
Prosegui pure, il discorso si fa interessante
L’altro passaggio importante nella nostra storia è stato quando nel 2012 lei sceglie di candidarsi alle primarie del Pdl, dove eravamo entrati tutti insieme con Alleanza Nazionale. Sembra un’era geologica fa ma sono soltanto poco più di 10 anni. Io decido di lasciare la componente di Gianni Alemanno dopo quasi 20 anni di militanza comune. Gianni per me è stato un padre politico e un maestro, non finirò mai di ringraziarlo. È stato il primo a credere in me, mi ha insegnato il modo di vivere la politica, la tensione militante, la necessità di approfondire ogni cosa, la capacità di lavoro. In quell’occasione lui era sindaco di Roma e quelle primarie necessitavano di un candidato di destra, per rappresentare la componente degli ex AN che noi vedevamo a rischio di estinzione all’interno del PdL.
Berlusconi non concepiva un partito strutturato, organizzato, democratico e Fini aveva rinunciato a rappresentarci, prima congelandosi alla presidenza della Camera e poi lanciandosi nell’esperienza fallimentare di Futuro e Libertà. Alemanno scelse di non candidarsi alle primarie, gli serviva un PdL unito a sostegno della sua ricandidatura a Sindaco di Roma. Giorgia lo fece. A quel tempo io ero parlamentare europeo (ero stato eletto nel 2009), decisi di sostenere Giorgia in quelle primarie che alla fine non si sarebbero più celebrate e poi nella costruzione di Fratelli d’Italia, di cui fui uno dei fondatori nel dicembre dello stesso anno. Quella mia scelta strinse ulteriormente il rapporto tra me e Giorgia, ma per me significò interrompere un legame fortissimo, anche comunitario, con il mio mondo di provenienza, per seguire lei in un’avventura folle. Perché in quel momento era follia assoluta, oltre al rischio, per me e per molti, di rimetterci le penne dal punto di vista dei ruoli istituzionali che tutti noi avevamo e che probabilmente saremmo andati a perdere. Da lì a pochi mesi, chi era parlamentare in quel momento nell’80% dei casi non venne rieletto a seguito del risultato insufficiente delle Politiche del febbraio 2013, a me toccò la stessa sorte nel 2014 quando per un soffio non raggiungemmo il quorum alle Europee. FdI è stato forse l’unico caso di un partito politico in Italia fatto da gente che non cercava di accaparrarsi delle poltrone, ma anzi aveva la quasi matematica certezza di perderle. Questo, al netto di tutti i difetti che un partito ha, conferisce a questa esperienza una nobiltà nella genesi che è sconosciuta nella politica italiana ed è il motivo per cui ne sarò per sempre orgoglioso. I rapporti con Giorgia si sono poi ulteriormente intensificati, sono diventato il responsabile Esteri del partito, insieme a Raffaele Fitto siamo stati i tessitori del percorso che l’ha portata alla presidenza del partito dei Conservatori Europei. Sui temi di politica estera abbiamo una sintonia totale, che deriva dalla comune militanza giovanile e dal sano pragmatismo che abbiamo sviluppato crescendo.
La sua maggiore qualità?
Ascolta molto e riesce a prendere il meglio da ognuno dei suoi interlocutori, per poi elaborarlo e fare una propria sintesi, questo la rende meno dipendente dagli altri. È meticolosa, quasi maniacale, nel prepararsi al meglio su qualsiasi argomento. Questo le permette di fare sempre un’ottima figura, è quello che lei intende quando si definisce un “underdog”: i troppi che la sottovalutavano si sono tutti ricreduti. Ovviamente questo comporta un dispendio di energie enorme ma il risultato è stato di importanza vitale prima per FdI e oggi lo è per l’Italia.
È stato più emozionante fare il consigliere comunale nella sua città, Milano, o entrare nel Parlamento Europeo?
L’ingresso a Palazzo Marino mi ha suscitato una forte emozione, è stato il primo salto importante dopo aver fatto per molti anni il consigliere di zona. Il Parlamento Europeo non ha la stessa sacralità, è un luogo più grande e più grigio, però anche quello è stato uno stacco pazzesco. Sono stato eletto in Europa per la prima volta a 32 anni; all’epoca ero consigliere comunale e, per quanto facessi politica da oltre 15 anni, mai avrei pensato che un giorno sarei arrivato lì. Il Parlamento Europeo ormai da tempo non è più un mero organo consultivo e rappresentare l’Italia a Bruxelles ti da oggi una responsabilità non indifferente. È anche per questo motivo, credo, che nel 2019 Giorgia mi chiese di ricandidarmi in Europa, vinsi e scelsi di dimettermi dalla Camera per tornare a Bruxelles da Capodelegazione di FdI nel nostro nuovo gruppo dei Conservatori. Alla Camera avevo passato un anno intensissimo, anche se pativo le modalità di lavoro. Sono una persona molto metodica, sono della Vergine per cui un po’ “quadrato”, a Roma le tempistiche erano diverse, non sai quando parti, non sai quando rientri. Non ci sono orari, non ci sono pause e questo mi impediva di curare il territorio che per me, che ho sempre vissuto di preferenze, è sempre stata una cosa importante. Giorgia mi chiese quasi stupita: “ma veramente vuoi restare lassù?”. Risposi di sì, perché lì lavoravo meglio e perché era importante per la crescita del nostro progetto: avevo capito che quello sarebbe stato il momento della svolta, che non avevamo avuto quando abbiamo mancato il quorum nel 2014. Anche lì fu un’altra sliding door sul piano della crescita di Fratelli d’Italia. La Lega presa da Salvini era ai minimi, noi ondeggiavamo intorno al 4%, loro presero il 6,5% e noi il 3,8%. A quel punto si aprì un grande spazio a destra che Salvini andò ad occupare con la svolta sovranista e nazionale mentre noi invece arrancavamo, avevamo solo 9 parlamentari alla Camera e nessuno al Senato. Lui passò dal 6,5% al 30% occupando uno spazio politico che poteva essere nostro e che non eravamo riusciti ad intercettare, a causa del risultato delle europee del 2014. A Bruxelles stiamo facendo un grande lavoro, ogni tanto mi manca però la battaglia politica d’aula del Parlamento italiano, il momento del discorso, del dibattito, del contraddittorio che da noi è molto più freddo e dilatato.
Torneresti a Roma?
Ora no, la priorità assoluta è fare un ottimo risultato alle Europee del 2024 per scardinare la sinistra a Strasburgo e riportare un po’ di sano realismo nelle istituzioni Ue.
In uno dei tuoi ultimi podcast hai dichiarato che il Green Deal Europeo è irrealistico. Perchè?
Il Green Deal Europeo è semplicemente insostenibile. Sono stati stabiliti dei target di riduzione delle emissioni troppo elevati e con un limitato tempo a disposizione per raggiungerli, oltre ad avere un costo sociale economico troppo alto. Questo si vede in tutti i campi, dalle auto, agli imballaggi, alla plastica e a tutte le diverse declinazioni della strategia Green europea che avrà un costo enorme sul piano dell’approvvigionamento energetico e delle materie prime. Ci stiamo di fatto condannando contro ogni principio di neutralità tecnologica, che normalmente dovrebbe essere seguito quando si fanno scelte di politica industriale, verso una sola tecnologia rappresentata dall’elettrico, senza averne la capacità produttiva e dovendo andare a recuperare tecnologia e materie prime in Cina. Stiamo passando dalla dipendenza dal gas russo, che stiamo superando, alla dipendenza dall’elettrico cinese, con il paradosso che lo stiamo decidendo noi stessi, sacrificando intere filiere produttive. Il contributo in termini di emissioni globali sarà praticamente nullo. La Cina per produrre ciò che servirà a noi per la nostra transizione aprirà nuove centrali a carbone e alla fine si inquinerà di più. Avremo anche un costo sociale enorme, a partire dai settori che non potranno essere riconvertiti; per questo noi siamo molto critici e speriamo di costruire l’anno prossimo una nuova maggioranza europea per cercare di placare questa attuale spinta ideologica. Pochi giorni fa, ad esempio, la Commissione Europea ha fatto un provvedimento sulle materie prime critiche. Noi per la nostra transizione energetica e digitale abbiamo bisogno dell’80% di litio, del 70% di tungsteno e di altri materiali che provengono quasi tutti dalla Cina. Abbiamo invertito l’ordine dei fattori, per ragioni ideologiche e probabilmente anche per interesse, prima però dovremmo assicurarci l’autonomia di ciò che serve per avviare la transizione e non il contrario.
Ultimamente in tanti si lamentano della deriva da città “impossibile da vivere” che sta prendendo Milano. Cosa ne pensi?
Ti racconto una cosa personale: mia moglie è da anni che mi propone di andare a vivere fuori città, per me invece risiedere a Milano è una cosa alla quale difficilmente rinuncerei, almeno fino a quando ne avrò la possibilità. Pur non essendoci nato, ho un grande senso di appartenenza alla città che purtroppo sta perdendo le sue radici. Per molti decenni a Milano trovavi il milanese, il meridionale emigrato e i ragazzi che venivano a studiare; adesso è cambiato il tessuto sociale della città, tante famiglie del ceto medio hanno preferito andare a vivere fuori e i nuovi “non nativi” che lavorano nel design, nella moda, nelle ICT, hanno un legame con la città meno profondo. Oggi sono a Milano ma domani potrebbe essere Berlino, Boston o Londra. È un cambiamento che sul piano politico il centrodestra non è riuscito a intercettare. Ma in città emergono fortissime le fragilità: quelle da custodire e quelle da arginare, le prime rappresentate dai nostri anziani che invecchiano, spesso lasciati soli in periferie abbandonate, le seconde dai giovani immigrati di seconda e terza generazione che non riescono a integrarsi. Assistiamo poi alle svolte green di Sala, che dovrebbero rendere la città maggiormente vivibile, ma invece a nostro avviso la rendono invivibile. Anche balzelli e divieti, puramente ideologici, spingono i milanesi ad abbandonare la città.
Un noto intellettuale, durante un’intervista mi disse “A Milano, la politica esiste, ma la città si muove per i fatti suoi.” È davvero una città che può correre da sola?
È abbastanza vero, anche se questi ultimi 25 anni ci hanno dimostrato che non è del tutto così. Senza la visione politica delle giunte Albertini, la nuova Milano, con City Life e Porta Nuova, non ci sarebbe stata. Così come la Milano dell’Expo della Moratti, oppure, in senso negativo, la Milano green di Sala. È vero che il milanese ha un senso civico molto forte, questo porta a una cura della propria città sicuramente superiore rispetto a molte altre città, c’è poi un’efficienza dei servizi tipicamente ambrosiana, che prescinde dalle generazioni e dal colore politico delle varie giunte comunali.
Qual è la tua opinione in merito alla posizione del Sindaco Sala sulla battaglia dei diritti civili per le coppie omosessuali?
È una battaglia ideologica fatta contro il Governo, anche se a dargli torto è stata la Cassazione e non la Meloni. C’è chi pensa che usi queste battaglie come diversivo rispetto ai tanti problemi veri della città, c’è chi dice che si stia preparando a un futuro politico in un altro ruolo. Possibile, ma quello che mi interessa ribadire è che nessun bambino viene discriminato: nel momento stesso in cui un genitore biologico lo riconosce ogni bambino acquisisce gli stessi diritti. Dire il contrario è strumentale, così come lo è fingere di ignorare la drammatica realtà dell’utero in affitto che mercifica donne e bambini.
Un’ultima, inevitabile, curiosità: vieni da un periodo difficile di inchieste mediatiche e giudiziarie che ti hanno coinvolto…
Un periodo durissimo per me e la mia famiglia ma ormai me lo sono lasciato alle spalle e non voglio più parlarne. Mi è mancata la serenità, ovviamente, ma mi è mancato soprattutto il contatto umano con le persone. Essere tornato a fare politica in mezzo alla gente, come ho sempre fatto, mi ricarica e mi fa guardare avanti. Sempre e solo avanti.
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