UE

Europa, quando a fare lobby sono i governi

19 Gennaio 2019

BRUXELLES. (Terza puntata dell’inchiesta) Era il 2010 e la Commissione europea era alle battute finali nella revisione del primo pacchetto ferroviario – l’insieme di norme che regolano l’accesso al mercato per questo settore. Il telefono squillò nella notte. Dopo lunghe trattative era decisa a inserire l’obbligo di separazione tra la gestione della rete – cioè i binari – e quella del servizio. Molte imprese ferroviarie, tra cui le Ferrovie italiane, avevano lavorato a questa soluzione perché interessate a entrare nel mercato passeggeri, oltre che in quello delle merci, di paesi come la Germania e la Gran Bretagna. Proprio Germania e Francia erano, invece, tra i principali oppositori di questa possibilità. La telefonata arrivò direttamente dalla cancelleria di Berlino. Nessuno è in grado di dire se all’altro capo del telefono ci fosse una cancelliera Merkel pronta a scatenare una guerra totale pur di mantenere il controllo della rete da parte della DB, le ferrovie tedesche. Fatto sta che nel testo rilasciato dalla Commissione pochi giorni dopo, l’obbligo di separazione della rete era sparito vanificando anni di lavoro di lobbisti e aziende di consulenza. L’episodio viene raccontato ancora oggi con un certo gusto negli uffici dei lobbisti a Bruxelles e, per quanto sia talmente difficile da verificare da assomigliare a una leggenda, rende bene l’idea che di fronte a certi poteri, anche il lobbista più capace si deve arrendere.

«Nell’attività di lobbying, una delle questioni difficili è misurare l’efficacia dell’azione», afferma Matteo Borsani, direttore della delegazione di Confindustria a Bruxelles. «Chi rappresenta un interesse è in concorrenza con tutti quelli che rappresentano interessi opposti o anche solo diversi e spesso il risultato in termini di legislazione è frutto di questa negoziazione».

Una negoziazione aperta e trasparente che ha fatto proliferare il numero di studi e agenzie di consulenza. I commissari, i direttori generali e i loro uffici sono tenuti ad ascoltare qualunque soggetto, dal cittadino all’impresa, dall’associazione all’ente pubblico, abbia un interesse diretto nella materia su cui stanno per intervenire. Hanno un tempo limite per rispondere alle richieste di incontro e devono tenere traccia delle riunioni formali come delle cene e delle colazioni di lavoro in cui incontrano i portatori di interesse.

Il Registro europeo della trasparenza, per quanto ancora strumento facoltativo, raccoglie la stragrande maggioranza dei soggetti attivi. Dal 2008, anno in cui fu creato con un database di circa 4mila indirizzi, è quasi triplicato. Al 27 dicembre scorso contava 11.903 registrazioni, di cui 851 italiane e di queste 128 con un ufficio a Bruxelles: associazioni di categoria, organizzazioni non governative, amministrazioni regionali, centri di studio, fondazioni e, naturalmente studi legali e di consulenza, cioè quei lobbisti che lavorano per rappresentare gli interessi dei propri clienti.

Come abbiamo visto nelle puntata precedenti, anche le istituzioni, come le Regioni, svolgono un’azione di lobbying. Ma gli interessi pubblici di un paese frammentato come l’Italia si ramificano in tanti rivoli e non è inusuale che vengano portati all’attenzione delle istituzioni europee da soggetti come le associazioni di categoria o non governative o addirittura da studi privati.Un caso interessante è la direttiva contro i ritardati pagamenti del 2008-2009 adottata dalla Commissione nel 2009 e dal Parlamento nel 2011. Confindustria Bruxelles seguì da vicino quel provvedimento che era la revisione di un’altra direttiva. «Intervenimmo prima che fosse approvata dalla Commissione», ricorda Borsani, «per rendere evidente che in Italia la direttiva non aveva prodotto i risultati sperati. Facemmo un report con dati provenienti dal nostro sistema e riuscimmo a dimostrare come in Italia ci fossero soggetti che pagavano a 700 giorni, cioè con limiti di 10 o 15 volte superiori a quanto indicato dalla direttiva. In questo modo siamo riusciti a convincere la Commissione ad abolire le eccezioni contrattuali e quindi la possibilità di accordi diversi tra le parti sui tempi di pagamento». Accordi, afferma Borsani, che naturalmente le aziende erano obbligate a sottoscrivere soprattutto nei confronti della pubblica amministrazione.«Oggi i tempi di pagamento delle amministrazioni pubbliche sono sensibilmente diminuiti, anche se lontani dagli standard europei», dice il direttore, «ma è un esempio di come il lavoro di lobbying deve far emergere i problemi a monte, prima che i provvedimenti vengano emanati. Dopo si possono sempre emendare, ma le possibilità di cambiare una direttiva o un regolamento già in fase di discussione sono inferiori al 20 per cento».

In quest’ottica opera anche APRE, l’Agenzia per la Promozione della Ricerca Europea che riunisce 128 tra Università, centri di ricerca, parchi scientifici, aziende e associazioni di categoria italiane. Il lavoro di questa associazione si concentra nel fornire servizi di informazione, assistenza e formazione per l’accesso ai finanziamenti del programma Horizon 2020 in ricerca e innovazione (APRE è la sede dei Punti di Contatto Nazionale italiani per Horizon 2020). Un settore in cui l’Italia spende in media l’1.29% del Pil, contro una media europea del 2,02%. Anche grazie al lavoro di APRE, i beneficiari italiani nei primi 4 anni e mezzo di Horizon 2020 hanno ottenuto 608 milioni l’anno (in media), pari al 3% del totale degli investimenti nazionali in R&D e al 7% degli investimenti pubblici nazionali. «Ogni anno facciamo circa ventimila contatti, oltre 400 appuntamenti e assistiamo ricercatori e innovatori in 700 tra proposte e progetti», afferma Gianluigi Di Bello, responsabile dell’ufficio di Bruxelles di APRE. Un risultato possibile grazie all’intensa attività di advocacy per avvicinare le priorità europee alle esigenze italiane. Insieme con Confindustria, APRE ha promosso la diffusione di uno strumento specifico all’interno del programma Horizon 2020 per finanziare la ricerca e lo sviluppo delle piccole e medie imprese. A questo settore, di cui l’Italia è uno dei principali beneficiari, è destinato il 4 per cento del programma e «supporta l’innovazione delle nostre pmi attraverso la ricerca e lo sviluppo tecnologico», assicura Di Bello.

«La rappresentazione e la difesa degli interessi avviene con scambi continui di informazioni con i parlamentari e con i funzionari della Commissione», spiega Mattia Ceracchi dell’ufficio APRE di Bruxelles, «ma sono importanti anche gli eventi tematici e i rapporti che periodicamente produciamo, oltre alle azioni di rete con il GIURI, il Gruppo informale degli uffici di rappresentanza italiani che dal 2016 coordiniamo».

Confindustria e APRE, più di altri tra i soggetti non istituzionali rappresentano interessi diffusi, sicuramente di parte, ma tra quelli che più si sovrappongono agli interessi paese.

Tuttavia non mancano gli esempi di interessi generali portati avanti da studi o aziende private. «Se gli italiani vanno da Milano a Roma con 39 euro, è anche merito nostro». Luciano Stella, lobbista con una lunga esperienza e fondatore dello studio Must & Partners, rivendica il ruolo pubblico del proprio lavoro di influenza. «Otto anni fa seguivo Ntv – Italo», racconta. «Era il primo caso in Europa di un’impresa ferroviaria privata che cercava di entrare nel mercato dell’alta velocità. Per l’allora Commissario Kallas e il suo gabinetto era una situazione completamente nuova e ricordo che chiedevano a noi informazioni. Dovevano capire le problematiche di un operatore che rompeva il monopolio per la prima volta. C’erano ritardi sulle autorizzazioni, perché Le Ferrovie dello Stato facevano di tutto per rallentare l’ingresso della concorrenza. Raccontavo al gabinetto del commissario cosa succedeva in Italia e loro scrivevano al nostro Ministero dei Trasporti. Dopo molti ritardi alla fine siamo riusciti a garantire l’accesso alla rete a Ntv e credo che questo lavoro sia un esempio di tutela dell’interesse collettivo di apertura del mercato e di accesso a servizi in concorrenza».

Caso diverso quello della Camera di Commercio Belgo-Italiana che scrive e gestisce progetti europei come capofila o partner in diversi settori di attività. Non svolge a Bruxelles azioni di lobbying vere e proprie ma organizza e partecipa ad eventi tematici per sensibilizzare i parlamentari europei e la Commissione su argomenti di interesse per le imprese italiane. «Turismo sostenibile, start up innovative e certificazione di prodotti di qualità, sono alcuni dei temi su quali abbiamo lavorato quest’anno», testimonia Matteo Lazzarini, segretario generale della Camera di Commercio Belgo-Italiana. «Abbiamo anche un importante ruolo nella formazione all’europrogettazione: gestiamo corsi molto pratici sul management dei progetti europei con lo scopo di inserire imprese, enti e associazioni italiane in partenariati internazionali». La Camera di Commercio è all’avanguardia in questo settore, anticipando al mercato italiano le novità dell’europrogettazione. «È questa un’attività in continua evoluzione», conclude Lazzarini, «perché i programmi europei sono in costante cambiamento così come il modo di presentare i progetti. In particolare, in questi ultimi anni sono emerse due figure professionali innovative: l’agente di progetto e l’esperto in social media marketing per l’europrogettazione. Siamo stati i primi a far conoscere in Italia questi nuovi modi di far progetti. Il contatto quotidiano con le Istituzioni europee, con i funzionari, con le lobby e con il mondo della consulenza ci permettono di essere sempre aggiornati e di favorire le nostre aziende nell’accesso ai finanziamenti europei».

Nel commercio, il grosso degli interessi nazionali, rimane in carico però alle associazioni di categoria. Sempre Confindustria con a fianco i sindacati italiani si è battuta due anni per non concedere lo status di economia di mercato alla Cina. «La Commissione avrebbe voluto concederlo e avrebbe impedito di prendere misure anti dumping che sono quelle su cui si regge la piccola impresa italiana dall’invasione di prodotti cinesi. Sarebbero stati centinaia di migliaia di posti di lavoro persi in Europa e in Italia», ricorda Borsani.

Altri casi di intervento riguardano le decisioni prese a seguito di catastrofi o eventi geopolitici. Dopo il terremoto in Iran del 2003, la Commissione aveva proposto una lista di prodotti su cui abolire i dazi. «Peccato che in quell’elenco figurassero solo prodotti che facevano concorrenza alle imprese italiane, non ce n’era uno tedesco o olandese», dice ancora Borsani. «Gli aiuti all’Iran li avrebbe fatti solo l’Italia. Stessa cosa è avvenuta di recente per l’olio di oliva tunisino dopo le primavere arabe. In entrambi i casi siamo riusciti a modificare l’approccio della Commissione».

È la riprova che l’attività di lobbying a Bruxelles si fa «in modo trasparente e cristallino perché il potere della politica intesa come si intende in Italia non è predominante», dice Stella che tra le tante attività ha insegnato lobbying all’Università del Salento a Lecce. Anche se poi è costretto ad ammettere che «il peso più importante lo hanno alcuni stati membri, in particolare uno che ha il potere di incidere direttamente sull’unico e vero organo legislativo comunitario che è la Commissione. Questo perché i tedeschi fanno politica del personale in Commissione europea». Ecco perché, quando arriva una telefonata da Berlino nel cuore della notte, direttive e regolamenti cambiano.

(fine terza puntata)

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