UE

Due o tre cose (scomode) sull’austerity

4 Luglio 2015

C’è una fondamentale mistificazione che circola ormai da anni ed ha le sue radici intellettuali nel dibattito sullo stimolo fiscale americano del 2009 e, almeno inizialmente, nella presunta divergenza tra la politica economica a stelle e strisce e quella britannica.

L’idea di base è che gli Stati Uniti sarebbero ripartiti grazie ad un generoso ricorso alla spesa pubblica, laddove invece, al di qua dell’Atlantico, essenzialmente per pura ideologia, si sarebbe scelto il credo dell’austerità, condannando un intero continente ad una permanente stagnazione. Anche il premier Renzi ha in più di un’occasione dato credito a simile interpretazione, nonostante le sue basi siano oltremodo fragili, cioè scarsamente supportate dai numeri, e non sia per nulla ovvio che esista una divaricazione tra Usa e Uk.

Tale commistione – meglio sarebbe dire confusione – tra teatri diversi, spesso alimentata da alcuni famosi intellettuali appassionati di Argentina e di Venezuela, finisce per mettere insieme realtà che nulla hanno in comune. Da una parte, il governo dell’economia probabilmente più dinamica del mondo, che, nel mezzo di una profonda recessione, non solo aveva pieno accesso al mercato, ma anche a tassi storicamente molto bassi, essendo valutato come un rifugio di sicurezza nella tempesta. Dall’altra, una serie di paesi, primo tra tutti la Grecia, che avevano accumulato un enorme deficit fiscale e di bilancia dei pagamenti, e che il mercato non era più disposto a finanziare se non a tassi proibitivi.

 

Se nel primo caso è del tutto lecito discutere e dividersi, a seconda dei propri orientamenti, sulla bontà o meno di uno stimolo fiscale e di spesa aggiuntiva, nel secondo si tratta di fantasia: con un bilancio pubblico fuori giri e senza più accesso al mercato, quella che viene chiamata austerità, un termine non sempre ben definito e che tende ad essere usato per indicare cose molto diverse tra loro – ad esempio, secondo alcuni persino la Francia ne soffrirebbe, ovvero chiunque non abbia un deficit permanentemente superiore al 4% è ormai ritenuto, di regola, un pericoloso thatcheriano… so much per un mondo dominato dall’austerity! – era inevitabile. Inevitabile.

Non esiste un paese che, trovandosi in tale situazione, possa permettersi di approntare uno stimolo fiscale o programmare chissà quale piano di investimenti. Sarebbe bello, ma non esiste. In altri termini, per sé, nessuno, né Podemos né Syriza né Grillo né Salvini né Fassina né Mazzucato né Stiglitz… potrebbero/avrebbero potuto offrire una strada priva di austerity, dentro o fuori dall’euro che sia/fosse.

Prendiamo, ad esempio, la mitologica Islanda. Come ha sottolineato Mark Sadowski,

 

“Anyone who came away from reading Krugman’s posts, and the posts to which he links, might be forgiven for concluding that Krugman thinks that Iceland, unlike Latvia and Ireland, did not do any fiscal austerity at all”.

 

Insomma, la diffusa storiella della piccola, indomita isola nord atlantica, che sfida i creditori internazionali, applica politiche eterodosse e così sfugge alla morsa del consolidamento fiscale. Not so fast, come si dice,

 

The budget deficit in Iceland was 7.8% of GDP in 2009, but only 0.9% of GDP in 2013–better than the US and far better than the UK. […] Moreover, Iceland’s general government budget ran a surplus equal to 1.8% of GDP in 2014, or a change in fiscal stance since 2009 equal to 11.5% of GDP”.

 

Aggiustando per il ciclo – seppur sia pratica non priva di problemi e controindicazioni – si passa da un deficit del 10% del Pil potenziale nel 2009 ad un avanzo del 2,7% nel 2014, un delta del 12,7%. Graficamente,

 

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Conclusione,

 

“The scope and scale of Iceland’s fiscal consolidation was truly mind boggling. Real primary expenditures were estimated to fall by 12.7% between 2009 and 2012. This was accomplished by slashing current expenditures, transfers, and maintenance and investment, and by freezing public sector wages and benefits for a period of four years, during a time when inflation soared due to the 50% depreciation of the króna. […] The bottom line is that Krugman’s implied poster child for anti-fiscal austerity is in reality the advanced world’s second leading practitioner of it”.

 

Il consolidamento islandese non è stato tanto meno duro di quello greco. Ma soprattutto: Irlanda, Islanda, Lettonia, Grecia… ognuno con i suoi problemi specifici, chi nell’euro senza svalutazione, chi fuori dall’euro con svalutazione, chi con (quasi) currency board, tutti, chi più e chi meno – ed il più o meno dipende in buona misura da quanto compromesse fossero le cose al tempo zero – hanno praticato ampie dosi di austerità, semplicemente perché altro non potevano fare.

 

Ciò significa che tutto va bene, ogni critica all’austerità è sbagliata, ed esiste solo un destino di lacrime e sangue? No, ovviamente. Chi scrive, ad esempio, non ha risparmiato critiche all’operato del governo Monti, da questo punto di vista, seppur non tanto per le grandezze coinvolte, quanto 1) per la composizione degli interventi e 2) per la quasi totale assenza di riforme strutturali pro crescita che avrebbero potuto ridurre l’entità dell’inasprimento fiscale. Significa, però, che è necessario fare propri alcuni dati di realtà:

a) Una strada indolore non esisteva, in nessun caso.

b) Di tutti i casi succitati, solo la Grecia ha costantemente sotto-performato.

c) La causa prima dei problemi non è l’austerità, cui essi pre-esistono.

 

La Grecia, appunto.

Innanzitutto, seppur sia ben nota la sotto-performance vs i target stabiliti da FMI e istituzioni europee, nell’estate del 2014 il pil (annualizzato) aveva cominciato a crescere attorno al 2% ed il consensus per l’anno in corso era vicino al 3%; era stato anche recuperato un minimo accesso al mercato dei capitali. Tutto ciò ora non soltanto è perduto, a seguito dell’incertezza creatasi dopo l’annuncio, a dicembre, delle elezioni anticipate, ma, tra le continue turbolenze di questi ultimi mesi ed il drammatico precipitare degli eventi degli ultimi giorni, il rischio di un nuovo crollo del prodotto è purtroppo più di una possibilità concreta. In altre parole, qualsiasi eventuale risultato/concessione che il governo in carica fosse in grado di strappare ai partner europei, andrà confrontato con il costo altissimo dell’ottenerlo. Molto difficilmente il saldo sarà positivo,

“The argument about how much of a primary surplus Greece should run will now become how much of a primary deficit must be tolerated by Athens and its creditors. Tsipras will then get his wish for countercyclical stimulus in Greece, having destroyed the economy in order for Europe to save it”.

 

Più in generale, quando si tratta di Atene, il tema ricorrente – o forse, meglio, l’ossessione -, è quella del debito, ritenuto essere troppo alto ed all’origine delle politiche di austerità. Il primo punto da sottolineare è che, anche se avesse ripudiato il debito ab initio – a quel punto senza più aiuti esterni – la Grecia non soltanto non sarebbe sfuggita all’austerità, come ha ben ricordato Nikos Tsafos, autore di un bel libro sull’odissea ellenica, Beyond Debt: The Greek Crisis in Context

 

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ma avrebbe anzi dovuto chiudere il deficit primario in tempi assai più brevi, come accaduto ai paesi dell’America latina negli anni ottanta,

 

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In altre parole, sarebbe servita persino maggiore austerità.

 

Ora, non c’è dubbio che la prima parte del salvataggio sia stato anche un modo mascherato di aiutare gli istituti di credito che avevano prestato denaro alla Grecia – per inciso, a quel tempo la Germania, dove tendono a prevalere i timori legati al moral hazard, non sembrava per nulla sfavorevole ad un bail-in dei creditori privati, ed a frenare fu soprattutto la Bce -, nondimeno, anche su questo, visto il normale tenore del dibattito, sono necessarie sostanziali precisazioni:

 

a) per prima cosa, la preoccupazione per la stabilità finanziaria del continente  non era peregrina, all’epoca;

b) il taglio del debito fu in seguito uno dei più grandi mai realizzati (“The Greek debt exchange can claim historic significance in more than one respect. It set a new world record in terms of restructured debt volume and aggregate creditor losses, easily surpassing previous high water marks such as the default and restructuring of Argentina 2001-2005”);

c) la ristrutturazione ha colpito duramente i fondi pensione domestici – parte dei problemi previdenziali si originano lì – e le banche, i soldi per la ri-capitalizzazione delle quali sono venuti dall’Europa medesima;

d) la riduzione del debito in termini di Net Present Value fu ingente.

 

Non era comunque abbastanza, come alcuni celebri consulenti del governo greco sostengono?

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Forse. Però non si può dimenticare che,

 

a) a seguito delle operazioni di cui sopra il costo del servizio del debito si abbassò drasticamente, divenne più basso di quello di molti altri paesi europei, inclusa l’Italia, implicando un sussidio di notevole entità (“In fact, according to my calculations, one of the demands of Syriza leader Alexis Tsipras will be likely met this year, even without any change in bail-out terms: actual interest service costs of Greece will likely be below 2% of GDP in 2015”e ciò rende ancora più imperdonabile il deterioramento degli ultimi mesi, deterioramento che gioca parte non piccola nella recente richiesta di ristrutturazione del FMI),

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b) proprio per questa ragione, non si può non tenere conto dei vincoli politici esistenti. In altre parole, a volte sembra che in qualche modo sia tutto dovuto, meglio se senza condizioni, in particolare secondo il capo del governo greco, il quale non solo ha fatto campagna elettorale promettendo di ridurre l’entità nominale del debito, ma pure di fare deficit spending… con denaro che non è mai stato nella sua disponibilità democratica.  Purtroppo (o, forse meglio, per fortuna) questo non è possibile. Ci sono elettori e democrazie anche dall’altra parte, benché spesso si faccia finta di dimenticarlo.

 

In ultima analisi, probabilmente il vero errore è stato quello di non capire che la Grecia era/è un outlier, a tutti gli effetti un paese in via di sviluppo meno strutturato persino delle ex-repubbliche baltiche che emergenti lo sono sul serio, privo di vera capacità istituzionale, esposto a dinamiche inaudite per una realtà di quel reddito pro capite, come dimostra l’incredibile crollo delle entrate fiscali di questi mesi, al punto che si potrebbe quasi essere tentati di dare ragione a Kenneth Rogoff, dimenticando riforme, condizionalità e quant’altro,

 

“In an ideal world, offering financial aid in exchange for reforms might help those in the country who want to shape it into a modern European state. But given the difficulty Greece has had so far in making the necessary changes to reach that goal, it might be time to reconsider this approach to the crisis completely. In place of providing the country with further loans, it might make more sense to provide outright humanitarian aid – regardless of whether Greece remains fully within the eurozone”. 

 

 

 

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