Partiti e politici
Da Raggi alla Brexit, la politica tra ragione e sentimento
Non si parla d’altro da settimane: la campagna per il referendum e le riforme, le elezioni amministrative, il voto britannico per uscire dall’Europa, le elezioni spagnole sembrano parlare tutte del grande tema della democrazia e del modo in cui è esercitata, della democrazia che decide, della “governabilità”, delle regole che non funzionano. Pochi invece sembrano chiedersi: con quali motivazioni le persone scelgono, con quali strumenti cognitivi ed emotivi?
In Italia per esempio si è a lungo dibattuto – non solo in occasione dell’ultimo voto amministrativo, se ne parla da decenni – di una auspicata e mai ritrovata ricongiunzione sentimentale tra la sinistra e il suo popolo. Si parla con stupore, a proposito del voto a Roma, della distanza progressiva tra la sinistra e le periferie: il colore rosso diminuisce in maniera direttamente proporzionale mentre ci si dirige dal centro della città alla sua periferia, ha scritto qualche anno fa un politico che è stato anche dirigente Pci come Walter Tocci.
La ricongiunzione sentimentale auspicabile, c’è da dire, riguarda in primo luogo i votanti. Prendiamo la sesta circoscrizione di Roma, ovvero quasi 200 mila aventi diritto al voto. Di questi hanno votato circa 100 mila al primo turno e circa 90 mila al secondo. Dunque la metà degli elettori di questo posto preso a simbolo – i giornalisti nei giorni successivi sono anche andati a fare dei servizi da inviati a Tor Bella Monaca, con inevitabile contorno di minacce, neppure andassero a Raqqa – non è andata proprio a votare. Che cosa pensano, questi elettori? Nessuno lo sa. Degli altri poi, al primo turno in circa 40 mila hanno dato il voto a Virginia Raggi, circa 17 mila a Giachetti, circa 25 mila a Meloni. Marchini ne aveva presi meno di 10 mila. Al secondo turno Giachetti è arrivato sotto i 19 mila, la Raggi a 71 mila. Considerando che Fassina aveva preso poco più di 2000 voti, non è difficile capire che molti dei voti della candidata del Movimento 5 Stelle sono venuti da Giorgia Meloni. Ma in passato andava in modo tanto diverso? Alle comunali del 2008, quelle vinte da Alemanno contro Rutelli, al primo turno il Pd prendeva 35 mila voti, il Pdl superava i 43 mila. I votanti erano di più. Alle comunali del 2001 Veltroni se la vedeva con Antonio Tajani, non esattamente un modello di possibile congiunzione sentimentale con il popolo disperato delle periferie abbandonate. Eppure al municipio VIII, come si chiamava allora, Veltroni ebbe la meglio per un soffio al ballottaggio: 50,49 contro 49,51, l’uno 56 mila voti, l’altro 55 mila. Anche allora al candidato di sinistra andò molto meglio al Municipio I che a Raqqa, dove in tantissimi votavano per Tajani.
Chi scrive ha avuto una esperienza diretta ad un seggio elettorale, da scrutatore in una sezione del centro di Roma. Lì ho potuto verificare due fenomeni diversi: la schiacciante maggioranza delle schede che indicavano Virginia Raggi come sindaco contro Roberto Giachetti – con un rapporto di 60 a 40 – e subito dopo il testa a testa tra i candidati alla presidenza del Municipio, dove pure si confrontavano un candidato 5Stelle e uno del Pd. Quella del Pd alla fine ha vinto. Dunque lo stesso elettore che faceva la croce sulla giovane avvocatessa indicava nella sua seconda scheda la presidente uscente del Municipio, del Pd. Evidentemente dava più fiducia della sua avversaria.
Infatti alla fine ha vinto. Le stelle del Movimento di Grillo hanno funzionato meno, in questo caso.
Nel suo “La giornata d’uno scrutatore” Italo Calvino racconta l’esperienza di un militante del Pci inviato a fare lo scrutatore nel seggio elettorale all’interno del Cottolengo, uno dei tanti ospedali e ospizi che “fungevano da riserva di voti” per la Dc, centinaia di idioti e infermi portati a votare. Ma la processione dei votanti appare subito allo scrutatore inviato lì dal Pci (le elezioni erano quelle del 1953, quelle della “legge truffa”) la “sfilata dell’Italia nascosta” sconosciuta, “il segreto delle famiglie e dei paesi”, “la campagna povera” che si rivelava. E inevitabile arriva nello scrutatore il seme del dubbio “antiegualitario” sul suffragio universale, perché l’idiota e il cittadino cosciente erano uguali, il loro voto valeva lo stesso. Assieme al dubbio però Calvino racconta anche la consapevolezza di un mondo sconosciuto a lui e ai suoi dirigenti, attraverso le fototessere dei documenti di identità e la carne di quei reclusi accompagnati da preti e suore.
Nelle considerazioni sul voto britannico si è sentito anche questo: gli inglesi che guardano avanti contro i poveri analfabeti della campagna, i giovani contro i vecchi. Si è esaltata la “democrazia”, ovvero il fatto che un referendum abbia deciso la strada da prendere, e si è biasimato il voto poco informato o addirittura “suicida” delle regioni che avrebbero bisogno di più Europa e invece la respingono, tranne poi esaltare le “due milioni di firme online” europeista che chiedono un nuovo referendum anche se magari sono molto simili e altrettanto disinformate a due milioni di like su Facebook. E nessuno che dica: ma è davvero giusto votare per referendum sull’Europa? Sarebbe giusto votare per referendum se condannare o assolvere un imputato, se reintrodurre o no la pena di morte, se abolire o no l’Imu?
Un paio d’anni fa Nigel Farage ha tentato di candidarsi al Parlamento britannico nel suo collegio e non ce l’ha fatta. Nello stesso collegio invece giovedì i “leave” erano avanti di 27 punti percentuali rispetto ai “remain”. Non so se questo significhi qualcosa, ma magari può far sperare che al prossimo voto politico l’Ukip andrà male; come al Municipio I di Roma dove, al contrario di quel che ci si poteva aspettare, alla fine ha vinto la candidata del Pd.
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