
UE
Da Michele, l’Europa fai da te è servita
Potente o pacifista, bellicosa “ma anche” sociale, imperialista o “dei popoli”, tutto o il contrario di tutto. Socialisti, verdi, liberali e popolari votano il riarmo e domani tutti in piazza in nome dell’Europa “come tu mi vuoi”.
La manifestazione “per l’Europa” lanciata da Michele Serra nel suo podcast (primo caso nella storia di un appello a scendere in piazza riservato agli abbonati), poi gentilmente condivisa urbi et orbi in un articolo in chiaro e impugnata con vigore da Repubblica, ha messo a nudo ambiguità e contraddizioni nell’opposizione e nelle stesse organizzazioni che ne fanno parte o vi si riferiscono, confermate dal voto europeo di mercoledì: socialisti, verdi, liberali e popolari per il riarmo, il PD tra riarmo e “né aderire né sabotare”.
Del resto anche Serra nell’articolo citato evoca l’Europa orfana del “concetto politico-strategico di ‘Occidente’” e “vaso di coccio tra i vasi di ferro” USA e Russia, la “democrazia in pericolo” e dichiara che “qui o si fa l’Europa o si muore”, parafrasando il celebre motto pronunciato da Garibaldi sulle zolle insanguinate di Calatafimi (non in un simposio di democratici), ma non cita mai Rearm Europe. Lapsus singolare, che non è passato inosservato e ha costretto l’autore a precisare, giustificare, in parte (minima) ritrattare, ripiegando sulla distinzione kantiana tra il riarmo in sé e le sue modalità (la difesa comune contro gli eserciti nazionali).
Politica e associazionismo di sinistra, con poche eccezioni, tra cui l’ARCI e pezzi del pacifismo cattolico smarcatisi più o meno nettamente, riflettono le acrobazie verbali di Serra. L’ANPI non aderisce, ma “delegazioni delle strutture territoriali parteciperanno” sulla base di un netto no al riarmo. La CGIL – scrive Landini a Repubblica – porterà in piazza un’idea di Europa “alternativa a quella che ci stanno propinando in questi giorni” e sventolerà le bandiere della Pace. La prima facendosi mandare a quel paese dall’ANPI di Roma e in scia da un bel po’ di sezioni; la seconda dalla FIOM – De Palma il 15 sarà ad Hannover con l’IG Metall (ma i metalmeccanici hanno formalizzato la scelta di non essere nella piazza di Serra con una lettera) – nonché da RSU FIOM “pesanti”, tra cui quelle dei siti genovesi delle due aziende di Stato della Difesa, Leonardo e Fincantieri (in quest’ultima anche la FIM si dissocia dalla CISL).
Più in generale è tutto un fiorire di comunicati scritti in latinorum, in cui partiti, sindacati, associazioni e singoli illustrano la loro personale interpretazione del 15 marzo e annunciano che parteciperanno “su quella base”. Sabato Piazza del Popolo ricorderà quelle antiche “fraschette” dei Castelli Romani, in cui il proprietario mesceva il suo vino e gli avventori si portavano da mangiare. Serra metterà in tavola l’Europa, ANPI, CGIL, Roma Capitale, Sant’Egidio, Legacoop, ACLI, PD, AVS, IV, +Europa, Azione, Ranucci, Formigli, Scurati, porteranno avvolti nei loro fagotti chi la difesa comune europea, chi un Next Generation 2 con le bombe “ma anche” un po’ di sociale, chi la bandiera della Pace, chi il Manifesto di Ventotene, ciascuno, insomma, i Lari, Mani e Penati del proprio altarino domestico. Conte aveva chiesto a Serra di precisare se il vino era mosso o fermo, ma alla fine ha capito che è meglio disertare. Al presidente di Pax Christi, monsignor Ricchiuti, rara eccezione, sono bastate 15 parole: “Scendere in piazza per questa Europa con l’elmetto significherebbe rinnegare i nostri ideali pacifisti”. Amen.
E mentre le pagine di Repubblica ogni giorno si arricchiscono di nuove adesioni – l’ultima è quella degli edicolanti romani (mancano centurioni del Colosseo e parcheggiatori abusivi), nel mondo reale dai fiduciosi auspici di Serra – manifestazioni a Roma e Milano, “sperando in un contagio continentale” – si è ripiegati su Piazza del Popolo, quella per pochi intimi e a cui la “sinistra radicale” contrapporrà la “piazza pacifista” di Barberini, con ottime chance di centrare un risultato straordinario: essere ancora meno dei fan di Serra.
Questo film horror però ha il merito di sollevare alcuni nodi politici decisivi. Ne cito tre.
1. Quando si interpreta un testo politico, inclusi gli appelli alle manifestazioni, non conta solo quel che c’è scritto: contano il sottotesto e ancor più i gruppi sociali che l’hanno ispirato o fatto loro, i loro interessi materiali, la loro storia. Gli Agnelli-Elkann, editori di Repubblica e di Michele Serra, fino al 2015, dopo l’annessione della Crimea e l’embargo sulla vendita di armi a Mosca, hanno venduto blindati LVM Lince alla Russia, in parte finiti a una milizia siriana accusata dall’UE di crimini contro la popolazione. Poi li hanno venduti all’Ucraina. Ma a differenza della Frankfurter Allgemeine Zeitung, che il 17 marzo 2022 titolava “Forniture italiane su entrambe i fronti”, nella redazione di Repubblica e in Italia non se n’è accorto nessuno, neppure Serra. In quei giorni erano presi a inveire contro i “pacifisti che fanno il gioco di Putin”. Insomma pensare che il Gruppo GEDI oggi faccia da megafono a Serra per amore dell’Europa è come pensare che Starlink abbia dato la copertura satellitare a Zelenski con Biden e minacci di togliergliela con Trump perché la posizione ideale di Musk sulla questione ucraina è mutata. O come pensare che lo scontro nel PD tra i “riarmisti” e chi, come la Schlein, dice no agli effetti (il riarmo) ma non alla causa (l’Europa con l’elmetto), non abbia nulla a che fare con la presenza di dirigenti del PD nel complesso militar-industriale.
2. L’Europa “pacifista” di Ventotene esiste solo nella mente di chi interpreta il Manifesto di Spinelli e Rossi come gli appelli di Serra: vedendoci quel che desidera. Il Manifesto di Ventotene, come Ursula von der Leyen, sul piano delle relazioni internazionali non mette in discussione la guerra, bensì la “guerra in Europa”. Sul piano della politica sociale critica il Manifesto di Marx ed Engels, che dipinge come i padri di Stalin, e di fatto parifica il comunismo ai totalitarismi fascisti (come ha fatto a gennaio il Parlamento Europeo) e teorizza l’emancipazione dei lavoratori, “spesso costretti a lasciarsi sfruttare da chi offra loro una qualsiasi possibilità d’impiego”, ma a patto che questi connettano i propri interessi di classe “con gli interessi degli altri ceti”, incluso chi li sfrutta. Essenzialmente però già l’Europa di Spinelli è soprattutto un progetto economico. Nell’Ottocento le borghesie liberali si inventano gli Stati nazionali per governare forze produttive che ormai non possono essere più ingabbiate in piccoli mercati locali, svilupparsi economicamente e militarmente e rompere i grandi imperi multinazionali, ovviamente in nome della lingua, della religione, della Patria e della libertà. Un secolo dopo Spinelli dà voce agli “imprenditori che, sentendosi capaci di nuove iniziative, vorrebbero liberarsi dalle bardature burocratiche e dalle autarchie nazionali, che impacciano ogni loro movimento” e premono per la creazione di un mercato unico europeo, in nome della Pace (e figuriamoci). Il primo passo è la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, le materie che avevano deciso le sorti delle guerre mondiali. “Mettendo insieme carbone e acciaio europei scongiureremo una guerra fratricida” è la giustificazione. Sta di fatto che il 1951, l’anno in cui viene sottoscritto il trattato tra Belgio, Francia, Germania Ovest, Italia, Lussemburgo e Olanda, è anche l’anno in cui la Germania scarcera Alfried Krupp, erede della dinastia che aveva armato prima il militarismo prussiano e poi il nazismo, l’uomo che nel 1944-1945 sfrutta come bestie prigionieri di guerra ed ebrei di Auschwitz per produrre munizioni nei propri stabilimenti. L’anno dopo i membri della CECA firmano anche il trattato per la CED, Comunità Europea di Difesa. L’anno dopo ancora la Germania chiede a USA, Francia, Regno Unito l’autorizzazione a restituire a Krupp le sue aziende: serve a ricostruire l’industria pesante tedesca nel quadro della CECA. Nel 1952 in Italia circola un volantino non firmato (ma attribuibile al PCI, sezione del Comintern di Stalin) che accusa la DC di voler svendere l’Italia alla Germania e a Krupp. Alla fine la CED salta, perché la Francia non ratifica l’accordo, ma anche perché nel marzo 1953 Stalin è morto e l’URSS appare meno pericolosa. Il che, però, mette in luce le reali ragioni anche politico-militari di quell’embrione di Europa unita.
3. Il mondo oggi rientra in un’epoca di guerre e ciò alimenta inevitabilmente la polarizzazione politica, anche a sinistra, sul tema decisivo del rapporto con le classi dominanti. Serra ha il merito di aver reso evidente che aldilà dell’adesione alla sua manifestazione, che non finirà sui libri di storia, in ballo c’è qualcosa di ben più decisivo: il posizionamento di ogni forza politica e sociale rispetto alla propria borghesia e ai suoi mutevoli interessi. Vale la pena di citare un precedente. Nel 2016 il Consiglio regionale della Liguria a guida Toti approva all’unanimità (inclusi la sinistra-sinistra e chi oggi invoca la restituzione a Kiev di tutti i territori occupati dai russi) una mozione della Lega per il riconoscimento dell’annessione russa della Crimea e la cancellazione delle sanzioni a Mosca in nome degli “interessi delle imprese italiane”. Dopo l’invasione dell’Ucraina il PD chiederà il ritiro della mozione che aveva votato sei anni prima. Nonostante questi aspetti farseschi, però, la situazione è terribilmente seria e i toni si fanno inevitabilmente aspri, perché non c’è più spazio per i “ma anche” e per i “né aderire né sabotare”. Oggi o si sta col velleitario ma chiaro tentativo di costruire un imperialismo europeo, un vaso se non di ferro almeno di stagno tra le grandi potenze, o si sta con chi è destinato a diventarne massa di manovra e vittima: i proletari europei e non. O si lotta contro l’Europa del riarmo o se ne diventa carne da cannone. Nascondere la testa sotto la sabbia in nome del “non dividiamoci” significa prepararsi a un nuovo 4 agosto 1914. Di più, la condizione per unire le vittime predestinate della guerra e mobilitarle contro è proprio dividersi da chi la promuove o semplicemente non la contrasta.
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