Partiti e politici
Corbyn e il Labour post-Brexit. Sguardi su un conflitto illuminante
Chi decide dentro un partito ? Quanto conta l’opinione della base ? I gruppi dirigenti possono rivendicare uno sguardo più lucido dei semplici iscritti, e far pesare di più la propria opinione ?
Fra i tanti sconvolgimenti che il referendum sulla Brexit ha generato nella politica inglese – l’uscita di scena di David Cameron, prevedibile in caso di sconfitta del “Remain”, quella a sorpresa di Nigel Farage, che ha lasciato l’Ukip nonostante potesse fregiarsi del ruolo di vincitore del referendum – c’è l’ aspro conflitto che si è aperto dentro il Partito Laburista, con il leader Jeremy Corbyn sfiduciato dalla stragrande maggioranza dei deputati (Member of Parliament, MP’s) del suo partito.
La cronologia dell’accaduto, sommariamente, è questa: subito dopo il referendum Corbyn è stato accusato di non aver sostenuto con la dovuta energia la campagna del “Remain” e, più in generale, di non essere in grado di portare il Labour alla vittoria nelle prossime elezioni generali, previste nel 2020. Una linea politica troppo “di sinistra” – è l’accusa – sta portando il partito a ghettizzarsi e a perdere il sostegno di quella parte moderata dell’elettorato essenziale per poter contendere la vittoria ai Conservatori.
La sfiducia dei deputati ha portato ad una nuova competizione per la leadership, in cui a Corbyn si contrapporrà Owen Smith, rimasto unico candidato in opposizione al leader attuale; l’altra possibile candidata, Angela Eagle, si è ritirata garantendo il suo appoggio a Smith.
La questione fondamentale, ovviamente, riguarda la contrapposizione fra due diverse linee politiche. Io che scrivo tifo Corbyn, ma si tratta soltanto di un’opinione, e ci sono autorevoli voci che si esprimono a favore sia dell’uno che dell’altro candidato.
Come accade in queste occasioni, ciascuna componente enfatizza gli elementi a proprio favore, a volte esagerando un po’, fino ad arrivare ad esporre timori effettivamente un po’ grotteschi. Non mancano, per fortuna, confronti argomentati fra i sostenitori dell’uno e dell’altro candidato.
Un equilibrato articolo uscito proprio in questi giorni analizza i sondaggi disponibili, e confronta la serie storica di risultati alle elezioni di “mid-term” per il partito all’opposizione. In base ai dati rilevati, nessuno dei contendenti può onestamente dirsi vincitore, e nessuno può essere considerato obiettivamente sconfitto.
La questione su cui mi sembra interessante soffermarsi – anche se può apparire secondaria – è tuttavia la modalità secondo cui sta avvenendo questo scontro interno al Labour.
Corbyn è leader dal settembre del 2015: un tempo forse troppo breve per esprimere un giudizio definitivo sul suo operato. Ma, soprattutto, è stato eletto secondo la logica “One Man One Vote”, introdotta al tempo della elezione del suo predecessore Ed Milliband: ogni membro del Labour ha avuto diritto ad esprimersi, e lo hanno avuto anche i cosiddetti “supporter registrati”, dopo aver versato tre sterline.
La vittoria di Corbyn sui suoi tre avversari per la leadership nel 2015 è stata schiacciante, e fortemente trascinata dal massiccio afflusso di voti “dalla base”, anche grazie all’impegno dell’organizzazione Momentum, sulla cui natura e sul cui lavoro nella campagna a sostegno del leader varrà la pena di ritornare.
Nel momento in cui i deputati lo hanno sfiduciato, anche all’interno del partito è comparso quel conflitto sotterraneo “fra oligarchie e popolo” che sembra caratterizzare tutte le nostre democrazie e che, nel contesto britannico, si era manifestato da poche settimane nel referendum: un gruppo ristretto di personalità autorevoli ha sentito il dovere di intervenire per “salvare il Labour”, e ha ritenuto di avere il diritto di farlo sconfessando quanto deciso da una base ben più ampia di persone solo pochi mesi prima.
I contrasti che hanno seguito la sfiducia a Corbyn, riguardanti le modalità secondo cui si sarebbe dovuta svolgere la nuova sfida per la leadership, hanno reso ancora più evidente questo schema.
Dapprima si è contestato il diritto di Corbyn a ricandidarsi, sostenendo che non aveva il sostegno di un numero sufficiente di parlamentari, come previsto dalle regole; il Comitato Esecutivo Nazionale del partito (NEC), chiamato a dirimere la questione, ha sancito che il leader uscente può candidarsi automaticamente, senza bisogno di invocare il sostegno dei parlamentari.
Ma lo stesso NEC ha imposto alla partecipazione al voto un vincolo molto stringente – potranno votare gli iscritti al Labour prima del 12 gennaio 2016 – e ha concesso una finestra di tempo molto piccola, di soli due giorni, a chi avesse voluto diventare “supporter registrato”, alzando però la cifra da pagare ad addirittura venticinque sterline. Questa scelta ha escluso dalla possibilità di votare un numero considerevole di iscritti, che si sono avvicinati al partito proprio grazie alla proposta politica di Corbyn.
In tutto questo è difficile non vedere la riproposizione di contrapposizioni che in Italia conosciamo bene, e si sono manifestate in particolare dentro il Partito Democratico, riguardo all’elezione dei dirigenti e dei candidati alle cariche pubbliche.
Bisogna ammettere che non è per niente facile trovare un punto di equilibrio fra le diverse esigenze: da un lato è necessario che un partito si apra quanto più possibile all’esterno, favorendo e garantendo la partecipazione anche occasionale di chi, anche non riconoscendosi in toto nell’organizzazione, si senta coinvolto a sostegno di questo o quel candidato.
Dall’altro lato è necessario impedire che il ricorso al “sostegno esterno”, invece di essere una effettiva apertura a possibili compagni di strada, diventi lo strumento attraverso cui si convogliano in maniera organizzata e qualche volta truffaldina consensi su questo o quel candidato, facendo ricorso a persone che si muovono esclusivamente per interesse, e non per adesione ideale.
D’altronde, è doveroso che chi a un partito è iscritto, e magari per quel partito si impegna con costanza – sono rimasti in pochi, ma ci sono – abbia una voce in capitolo più forte, al momento di prendere delle decisioni, rispetto a chi si è appena avvicinato.
Si potrebbero fare molti esempi, in Italia, di situazioni in cui questo equilibrio non è stato trovato per nulla, e si sono prodotti danni sostanziosi: valga come esempio, per tutti, la gestione delle primarie liguri per l’indicazione del candidato alla presidenza della regione, nel 2015.
Di certo, in questo dibattito, la scelta fatta dai dirigenti del Labour sembra fortemente discutibile, e piuttosto orientata a difendere logiche che rischiano di essere completamente anacronistiche: impedire di votare per l’elezione del leader – che sarà proclamato a fine settembre – a chi a quel punto sarà iscritto al Labour da nove, otto, sette mesi, non si giustifica se non con la volontà di impedire un pronunciamento che, si teme, potrebbe essere decisivo far pendere la bilancia a favore di Corbyn. Si dice che si tratti di oltre centomila iscritti: quale organizzazione può permettersi di mettere da parte con leggerezza un numero così grande di aderenti ?
Di certo, come ricorda Helen Lewis, è opportuno che anche i suoi avversari si interroghino sulle ragioni del feeling così vasto fra Corbyn e una parte non trascurabile dell’elettorato laburista; per citare testualmente la commentatrice di NewStatesman: “As Labour leader, Corbyn makes people feel good about themselves and optimistic about the future. Anyone who wants to challenge him needs to understand that too, just as much as the electoral map or public attitudes to immigration or welfare”.
Insomma, anche sul Partito Laburista britannico si stanno abbattendo le contraddizioni che percorrono le nostre democrazie. I partiti, se vorranno ritornare ad avere un ruolo significativo all’interno dei nostri sistemi politici, dovranno provare a dare risposte alle questioni accennate. E dovranno essere risposte significative, di ampio respiro, che abbiano come obiettivo la trasparenza e l’effettiva partecipazione dei cittadini alla loro vita interna, non la sconfitta del rivale del momento. A oggi, il percorso da fare sembra ancora terribilmente lungo.
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