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Che ne è dei bambini siriani in questo frangente endemico?
Sono i più indifesi tra coloro che hanno bisogno di protezione. Il mondo si accorge di loro solo quando si coglie l’occasione di far veicolare sui social una foto straziante, da sbattere sulle prime pagine dei giornali e sulle principali piattaforme della comunicazione on line, come a cercare una pornografia del dolore che strappi lacrime, muova a compassione, procuri una fitta di spasimo: una pietà da consumare velocemente e mandare giù senza trattenerne il gusto amaro. La sofferenza più inconcepibile e aberrante ridotta a una delle immagini oleografiche dell’umanità, buona da inserire nelle sigle dei notiziari, nella presentazione grafica dei palinsesti, nelle sintesi dei trailer che promuovono beneficenza. I bambini delle aree interessate da conflitti e povertà continuano a morire. L’epidemia non concede una tregua al destino che pende sulle loro esistenze, e quel che è peggio ne determina, ancora più pesantemente, l’abbandono e l’isolamento dal resto del mondo. Le restrizioni di movimento e le misure di quarantena stanno peggiorando una situazione già disastrosa.
Distratti da un’informazione che concentra abominevolmente l’attenzione su fatti e personaggi che andrebbero decisamente ridimensionati, ci dimentichiamo dei bambini di Aleppo, di Madaya e di qualsiasi altra città bombardata della Siria. La loro sorte infausta sembra non conoscere pause. Perennemente sofferenti e costretti a vivere in un clima di terrore, privati della loro infanzia quando sono fortunati, dell’esistenza quando avversati dalla mala sorte. Continuano a morire ogni giorno. Vittime di una guerra tanto crudele, dove tutti quelli che vi combattono finiscono per essere responsabili di un genocidio infantile inaudito, affrontano ogni giorno disagi e paure che un bambino non dovrebbe conoscere mai. Vedono la propria casa crollare sotto l’effetto devastante delle bombe, dalle cui macerie, talvolta, riescono a uscire vivi, tante altre volte, no. Provano angosce terrificanti, dove il dolore della perdita di un fratellino, una sorellina, o dei genitori marchia a fuoco la loro vita, rendendola uno strazio. Ansimano nel silenzio della paura e del supplizio, versando lacrime di preghiera per una pace che ancora una volta, il giorno dopo, non verrà.
Tutto, intorno a loro, si fa grigio, funereo, lugubre. Niente si muove, tutto sembra cristallizzato come in una macabra fotografia. Solo pietre su pietre, che prima erano case, luoghi, famiglia. E polvere, e ancora polvere, che sa di dimenticanza, abbandono, oblio. Un inferno, dove innocenti subiscono le nefandezze della specie umana, come se un simile martirio si rendesse necessario e inevitabile. E spendersi in congetture per biasimare un conflitto che ha causato orrore a dismisura diventa persino un esercizio insostenibile. La tragedia umana della guerra civile in Siria non ammette speculazioni politiche o partigianerie di sorta, tanta è la compassione che genera e il dolore che muove. Ciò non vuol dire che non se ne debbano indagare le cause e le responsabilità.
Chi ha distrutto dimore, scuole e ospedali per assestare colpi al nemico, non ha tenuto certamente conto della possibilità di spezzare le esistenze di persone indifese che non volevano affatto una guerra. Tanto meno si è preoccupato dei diritti sacrosanti della popolazione infantile. Migliaia di bambini siriani sono stati uccisi nell’indifferenza generale del mondo, sebbene le organizzazioni umanitarie, medici e volontari avessero sollevato la tragedia che li riguardava, sollecitando le istituzioni e gli organi di informazione internazionali. A quelli ancora in vita, l’umanità rappresentata dalle nazioni deve garantire, in virtù dei principi che ne reggono le democrazie e la vita sociale, il diritto alla sopravvivenza, alla casa, all’educazione, al gioco. Si fa un bel dire che dalla pandemia dobbiamo uscirne tutti insieme, globalmente. Perché dimenticare, ancora una volta, i bambini siriani, yemeniti, palestinesi e di qualsiasi altro luogo del mondo dove c’è disperazione infantile?
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