UE
Budapest. Natale in Piazza Szabadság
È un’umida mattina budapestina quando mi ritrovo a inseguire certi pensieri. Camminando camminando i miei passi mi conducono in Piazza Szabadság, pieno centro di Budapest, fiore all’occhiello della Nuova Europa. Il fascino della città è sempre incredibilmente vivo. Sono anni che la frequento ormai: che siano vecchi palazzi che cadono a pezzi, luoghi riassestati e riutilizzati, incantevoli edifici storici o moderni, sgorbi del presente destinati a un rapido deterioramento nel giro di pochi anni, la capitale ungherese emana una fragranza straordinariamente inebriante, così vissuta, scomposta, a tratti ironica, ma enormemente piacevole.
L’Ungheria è il cuore d’Europa da quando la cortina di ferro è stata smantellata, il Socialismo Reale definitivamente archiviato, le pulsioni di un popolo liberate e riconsegnate alla civiltà occidentale, sebbene noi europei d’occidente questa cortina non siamo mai riusciti a sradicarla. Dentro la nostra testa è ancora lì, immobile, malgrado il crollo del gigante sovietico e della nascita dell’Unione Europea. Per noi gli ungheresi appartengono ancora alla famiglia dei popoli dell’est, laddove est rimarca una distanza siderale. Al contrario i popoli dell’est, non solo gli ungheresi, considerano se stessi come popoli di centro-est. L’est lo lasciano alla vecchia Madre Russia insieme ad una manciata di sparuti paesi: Ucraina, Bielorussia, Moldavia. Cose che noi occidentali soltanto timidamente riusciamo a comprendere, nonostante l’unione monetaria con alcune di queste realtà e la promozione di alcuni programmi di successo sulla mobilità come l’Erasmus. C’è un fondamento storico che ignoriamo: un desiderio enorme di riscatto dal passato fatto di divisioni ed atroci sofferenze che attraversa tutti i paesi un tempo dall’altra parte della cortina di ferro. È lo strisciante e latente orgoglio di volersi sentire parte di qualcosa di grande, di farsi apprezzare, di portare altrove le proprie istanze culturali. Cose che Bruxelles non ostacola, eppure ben si guarda dall’approfondire. L’orgoglio di appartenere a qualcosa di immensamente grande, fiero, ambizioso che sappia dare dignità al pensiero, al lavoro, alla creatività e alle aspirazioni rappresenta un sentimento nobilissimo, ma al tempo stesso è un’arma a doppio taglio. La sua forza costruttiva, qualora venisse impedita, genererebbe una frustrazione e una rabbia tale da mettere in discussione l’assetto geo-politico, e di conseguenza culturale che per quasi trent’anni ha fatto dell’Europa, salvo qualche drammatico episodio e qualche piaga diffusa in certe aree, un luogo pacifico in cui vivere.
Con questi sentimenti fluttuo nell’aria di Piazza Szabadság, dove tante cose non riesco a spiegarle. Vivendo in Ungheria ho imparato che Szabadság in ungherese significa libertà. Libertà è quella parola che utilizziamo quando rivendichiamo i nostri diritti, quelli per i quali ci arrabbiamo se ci vengono negati; gli stessi che ci lasciano indifferenti quando li diamo per scontanti. Libertà è quando ci liberiamo da un peso che ci opprime e, improvvisamente, rilasciamo nell’aria un senso estremo di sollievo. Libertà è quella concertazione che ci rende parte di una società, quando sentiamo di poter assumere senza ingerenze le nostre decisioni. La libertà è tale se si esprime in un senso comune e condiviso, altrimenti diventa appannaggio di un’élite, assoggettamento o imposizione per qualcuno. La libertà è popolare per vocazione perché nasce dal basso. Se proviene dall’alto non può considerarsi vera.
Qui in Piazza Szabadság la storia recente ha messo in scena una Torre di Babele ideologica. La libertà non ha il profumo del riscatto delle ambizioni popolari, suona piuttosto come uno scherzo del destino, una burla amara, una beffa, un concentrato di tanti fallimenti, speranze tradite, colpi di mano, aspirazioni, assoggettamenti culturali antichi e moderni. È libertà di fare quel che si vuole in senso individualista, ossia quella libertà attribuita al dominatore di turno senza alcun riguardo per la storia. Anche nell’era democratica. Il risultato è un ostinato groviglio ideologico mai sanato, pienemente rappresentato dai quattro monumenti che tengono in ostaggio il comune sentire: il recentissimo monumento alle vittime dell’occupazione tedesca, il busto dell’Ammiraglio Miklós Horthy, il monumento dedicato all’Armata Rossa e la statua di Ronald Reagan.
L’avvento del Natale in Piazza Szabadság rappresenta la suprema dissacrazione di qualunque ideologia, come un movimento autoritario che rovescia le istanze dello scontro in atto, piomba dal cielo, si impone e proclama l’apertura della stagione consumistica. Guardatelo quell’albero decorato con palle dorate posto proprio davanti al controverso monumento dalle vittime dell’occupazione tedesca. Dinanzi al suo cospetto anche l’orbánismo, la tendenza architettonico-artistica della moderna Ungheria, si prostra nello svilimento della monumentale contemplazione. L’aquila nera, simbolo della potenza nazista che attacca la nazione ungherese, sbiadisce. Assume le sembianze di un uccello imbalsamato che attirerebbe probabilmente più le attenzioni di un bambino con uno spiccato interesse per gli animali, piuttosto che i timori dell’Arcangelo Gabriele. Quell’albero di Natale piantato lì davanti sprigiona un cinismo sarcastico tale da far rabbrividire la penna di Örkény. Colpo di genio o atto involontario? Nessuno lo dirà mai. Ad ogni modo ciò che si svela dinanzi all’umanità è il carattere tragicamente pacchiano dell’orbánismo. Chiunque sia stato a piantare quel monumento di consumistica e rasserenante cristianità, senza volerlo, ha sbeffeggiato la tracotanza del potere di un simbolo eretto, ultimato nella notte, e mai inaugurato per le proteste scatenate. Quel monumento, la cui ispirazione sembra afferire alle copertine di certi dischi black metal, di una bruttezza ed una decadenza trascendentale, al cospetto dell’albero di Natale suscita più ilarità che indignazione. Allora venite anche voi in Piazza Szabadság dove malgrado tutto è rimasta la libertà di ridere, dove l’ironia dei quali gli ungheresi, contrariamente a ciò che si pensi, sono maestri indiscussi, sa essere la più formidabile forma di redenzione umanitaria.
Tra l’albero e il monumento commemorativo del negazionismo, eretto per volare di Vittorio Bonaparte, presidia il monumento vivo composto da una distesa di oggetti che arginano la nevrosi collettivizzata, una diga eretta di storie famigliari più o meno tragiche, ma comunque vere, molto di più delle fandonie revisioniste. Ritratti, scritte, messaggi, pietre, scarpe, valigie, piante, decorazione con la stella di David quotidianamente rubano la scena al povero ed inerme Arcangelo Gabriele lasciato in compagnia dell’uccellaccio della discordia. Così viene celebrato il miracolo di Vittorio Bonaparte: la frammentazione della memoria collettiva non è mai stata tanto unita. Divide et impera.
L’orbánismo, un’ideologia totalitaria seppure democraticamente legittimata, si illude di poter imporre la memoria e l’interpretazione della storia a colpi di maggioranza parlamentare senza affrontare alcun tipo di dibattito, crogiolandosi negli eventi di facciata e facendo affidamento proprio sulla parte distruttiva dell’orgoglio. Come tanti altri governi europei del resto, anche in Occidente. Ma con un aggravante: si preoccupa di ergere un monumento sull’occupazione nazista, ma trova il proprio ispiratore supremo in Miklós Horthy che dei nazisti fu strenuo collaboratore. Il vecchio Ammiraglio la sapeva lunga: il suo scopo era quello di recuperare molti dei territori perduti dagli ungheresi in seguito all’ingiusto Trattato del Trianon del 1920. Tuttavia, in un acclarato impeto di realpolitik, contribuì allo sterminio di 568mila ebrei di cui uno strumentalizzato e martirizzato Arcangelo Gabriele dovrebbe farsi testimonial. Vittorio Bonaparte non ammette connessioni tra significato e significante: non ha alcuna importanza se l’Arcangelo Gabriele annunciò la venuta sulla Terra del più importante tra gli ebrei; l’Arcangelo Gabriele è un simbolo nazionale, l’attore ideale nell’interpretazione della più imponente e spettacolare l’autocelebrazione della nazione ungherese, cose che la cortina di ferro aveva messo a tacere con una dose massiccia di brutale repressione. Prima del regime sovietico era stato proprio Horthy a ridare lustro ai magiari, esattamente quello che Vittorio vorrebbe fare realizzando la costruzione di stadi per comuni di 4.000 abitanti (tra cui Felcsút, piccolo comune ungherese la cui esistenza è certificata dai natali del despotico), edifici moderni senza gusto architettonico, come i vecchi blocchi sovietici che nella loro miseria avevano pur sempre una ratio: la razionalizzazione delle esistenza nel solco della comune convivenza. Senz’altro brutale, ma da intravedere in un’ottica comune. Nell’orbánismo non c’è alcuna ratio, se non il consenso che vuole trovare i propri miti a tutti i costi per alimentarsi. Tuttavia, dal punto di vista simbolico, l’Ammiraglio non sembra godere della popolarità di un Kossuth: ecco perché un suo busto o una statua che ne rappresenti le sembianze non sopravviverebbe illeso in una piazza a cielo aperto. Così l’arrogante Bonaparte custodisce il proprio eroe presso le scalinate di una chiesa evangelica protetto da un cubo di plexiglas.
In ogni caso l’invasione da parte della Germania c’è stata, collaborazionismo o meno. Lo testimonia anche il monumento in onore dell’Armata Rossa. Numerosi furono i soldati sovietici sacrificarono la propria vita per liberare l’Ungheria dalle forze tedesche. “Dalla padella alla brace” avrà da dire qualcuno. E sia, purché si tenga conto delle contingenze storiche del momento. Il monumento troneggia dall’altro capo dell’enorme piazza, oggetto di un enorme dibattito anche negli anni precedenti all’orbánismo tra chi ne chiedeva la rimozione e chi la permanenza. Strano che Vittorio Bonaparte in questi anni di guida del Paese non abbia provveduto alla sua rimozione. Proprio lui che con molta veemenza si scontrò contro i russi inaugurando la propria carriera politica, chiedendo all’Armata Rossa di lasciare l’Ungheria. Oggi, tra tutti i leader degli ex-stati sovietici appartenenti alla Nato, intrattiene i migliori affari con Mosca, dal progetto del gasdotto che avrebbe dovuto interessare il Paese e poi fermato dall’UE, al rinnovo di due reattori nella centrale nucleare di Paks fino ad importare enormi quantità di petrolio e gas.
Curiosa anche la presenza di una magnifica statua di Ronald Reagan, fatta erigere sempre per volere di Vittorio, colui che al comunismo inferì il colpo mortale, proprio in prossimità del monumento dedicato all’Armata Rossa. Il Presidente degli USA era stato decisivo anche nei negoziati per il disarmo nucleare delle superpotenze e la sua politica estera contribuì certamente in maniera decisiva all’abbattimento del Muro di Berlino. Ma Reagan è pur sempre il profeta della deregulation, ovvero colui che ha contribuito allo sviluppo del potere finanziario a scapito della politica, condizione che Vittorio Bonaparte osteggia in chiave nazionalistica, conquistandosi anche gli attestati di stima del Putin fan club e degli euroscettici.
Siamo alla fine di Piazza Szabadság e al florilegio dei vuoti ideali. Alle spalle di Reagan si intravedono le luci di un altro albero di Natale situato in Piazza Kossuth, sede del Parlamento Ungherese. Lungo la via che collega le due piazze c’è un’altra statua. Su un ponte di ferro si erge la figura di Imre Nagy, leader della rivoluzione del ’56. E’ un monumento dedicata alla sua memoria, simbolo di un uomo la cui tragica storia personale è ancora molto sentita. Lui, comunista vero e convinto, morì combattendo contro il regime di cui aveva fatto parte. Nagy comprese che la tenuta del potere nella formulazione sovietica e senza consenso popolare non avrebbe portato benessere al proprio Paese. Fisso con devozione il suo volto in un momento di raccoglimento personale, come un naufrago che ha appena raggiunto la riva e che in qualche modo è rimasto aggrappato alla vita. Mi chiedo se durante quei giorni di agitazione del ’56 avrebbe mai immaginato che, nell’anno 2015, Piazza Szabadság potesse essere il Pantheon a cielo aperto delle contraddizioni di una nazione. Più scruto il suo sguardo e più lo sento lontano. E penso quanto sia stata paradossale l’ascesa di Vittorio Bonaparte che attirò le attenzioni nazionali proprio in occasione delle celebrazioni della sepoltura di Imre Nagy nel 16 giugno del 1989, a 30 anni dalla morte. Quel giorno nacque dal punto di vista civile la democrazia ungherese, la stessa che oggi, stretta dalle pulsioni dei populismi, stigmatizza l’appartenenza fine a se stessa evitando i conti con la storia sotto lo sguardo complice e silente dell’Europa intera. Nagy non risponde, ma impassibile guarda dall’altra parte. Non in direzione di Piazza Szabadság, ma del grande albero luminoso. Il Natale è arrivato anche per lui.
*Si ringraziano Anna Tóth per le fotografie e Doron Mittler per il confronto
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