UE
Brexit e crisi dell’integrazione europea
Il risultato del referendum sulla Brexit è atteso come una sorta di giudizio finale sul futuro dell’Unione Europea (UE), un tornante della storia in grado di decidere sull’esistenza stessa dell’Unione. L’impressione è che questa chiave di lettura del referendum britannico sia solo parzialmente condivisibile, perché credo che qualsiasi sia il risultato – la vittoria dei leave o quella degli stay – il dato politico sia già ampiamente chiaro: il semplice fatto che si stia tenendo un referendum di questo tipo, per giunta così combattuto, è una sconfitta per l’UE.
Prima di tutto è una sconfitta perché anche in caso di vittoria dello stay, sarà un successo risicato e sancirà ufficialmente il fatto che uno dei paesi più importanti dell’UE è spaccato letteralmente a metà rispetto alla membership europea. In secondo luogo è una sconfitta perché l’accordo raggiunto a fine febbraio da Cameron con le istituzioni europee e i paesi membri è, nei fatti, un accordo capestro per l’Unione. La limitazione nell’accesso al welfare britannico per i cittadini comunitari, il rifiuto del Regno Unito della clausola sulla even closer union – ossia l’impegno a proseguire e rafforzare il processo di integrazione – hanno sostanzialmente sancito l’esistenza di una “zona franca” all’interno dei “confini” dell’UE. Insomma, il Regno Unito è già ufficialmente con un piede fuori dall’Unione. Il referendum è solo uno strumento con cui Cameron, per calcoli di politica interna, ha cercato di contenere la perdita di consensi sul fronte dell’euroscetticismo: un gioco fatto con la convinzione di poter alzare la posta con l’UE, ottenere clausole vantaggiose per poi vincere il referendum e restare nell’Unione con la legittimazione a far fallire ogni progresso dell’integrazione. Solo che il gioco gli è scappato di mano e rischia ora di essere come benzina gettata su di un fuoco che covava da tempo sotto le ceneri.
Tutto questo ci porta a riflettere sul punto principale che sancisce quanto il referendum stesso sulla Brexit sia una sconfitta, ed è il fatto che un partner europeo possa pensare di abbandonare lo spazio comune europeo. Il vero dato politico del voto britannico è che il 23 giugno sancisce l’inesistenza di uno “spazio politico europeo”. Per anni gli studiosi e le èlites europee si sono interrogati su come rafforzare la dimensione politico-istituzionale dell’UE, chiedendosi se fosse necessario parlamentarizzare l’UE o spingere verso la sua presidenzializzazione, se abbandonare il voto all’unanimità nel Consiglio Europeo e sposare quello a maggioranza qualificata oppure se stimolare la partecipazione diretta dei cittadini tramire euro referendum e petizioni. Tutte queste ipotesi e proposte si stanno infrangendo contro l’eventualità che un membro – molto importante – dell’Unione possa abbandonare questo processo, minando così il requisito propedeutico a qualsiasi riforma istituzionale: l’esistenza di uno spazio territoriale definito su cui esercitare una qualche forma di sovranità e di autorità (anche se complessa perché condivisa con gli stati nazionali). Ciò crea un precedente, apre lo spazio ad altre possibili defezioni e sancisce ufficialmente il fatto che l’integrazione europea è un processo da cui si può recedere. Il punto è che un processo di integrazione politica non può funzionare come un club a cui si aderisce ma che si può abbandonare; una unione politica è più della semplice sommatoria delle sue parti costituenti.
Il problema è che la Brexit è stata possibile perché l’UE è uno spazio politico incompiuto, una costruzione sovranazionale in cui si è rinunciato a sancire un principio di ordine, ossia si è rinunciato alla politica. L’accordo di febbraio siglato tra l’UE, gli stati membri e il Regno Unito è semplicemente l’ultima e più fulgida espressione del fatto che l’UE è una organizzazione politica sui generis incapace di decisione politica e di sovranità. Gli ultimi otto anni di storia dell’Unione sono un ricco catalogo di esempi di incapacità di decisione politica e di assenza di sovranità: la gestione incerta della crisi finanziaria e del default greco ci hanno raccontato di un’Europa praticamente inerme e poi costretta dalle sue stesse regole istituzionali a ricercare accordi al ribasso, compromessi infruttuosi. Il disastro della crsi ucraina, aperta nei fatti dalla pessima gestione degli accordi di partenariato orientale, ha evidenziato l’incapacità dell’UE nel gestire gli spazi di vicinato e tutelare i suoi confini e quanto essa sia inerme dinanzi al risvegliari della politica di potenza della Russia. Talmente inerme che si sta profilando lo stanziamento di un battaglione NATO in ognuno dei Paesi confinanti con la Federazione Russa; l’UE continua così a delegare alla NATO la sua sicurezza, a cui non è in grado di provvedere autonomamente. Così come per tamponare in qualche modo la drammatica crisi dei rifugiati, ha stretto un accordo capestro da 6 miliardi di euro con la Turchia di Erdogan per impedire l’afflusso di migranti. Come l’impero bizantino prima del suo collasso, anche l’UE “paga” il suo vicino per garantire l’integrità dei propri confini.
In una condizione di tale debolezza strutturale era impensabile che non emergessero tendenze centrifughe. Il paradosso è che uno spazio che ambisce (o ambiva) ad essere politico e che invece si è rivelato solo economico e regolativo, ha visto l’emersione della conflittualità politica nella sua espressione più deflagrante e distruttiva, ossia nella frattura politica pro/anti integrazione che di fatto riguarda l’esistenza stessa dell’Unione. Il referendum sulla Brexit ne è solo l’espressione più evidente, lo stadio finale, quello della scomposizione. Uno stadio finale a cui non si può rispondere con la retorica, con il racconto tardo-adolescenziale da romanzo di formazione della “generazione erasmus” o con l’emotivo richiamo ad una comunità politica europea che non esiste; la sola risposta possibile è quella politica, di una nuova idea di integrazione europea che superi la dimensione mercatista e sposi l’idea di una UE attore globale post nazionale. Un attore politico, un vero leviatano, che al controllo della politica monetaria affianchi la condivisione con gli stati membri della leva fiscale, che garantisca i diritti sociali sul suo territorio, che coordini la politica estera e che garantisca i confini dell’Unione. Gli stati membri, o meglio quegli stati che ancora credono ad un progetto comune europeo, devono decidersi a dare una “forma politica” all’UE, dare un vero ordine politico ad uno spazio fisico delimitato, senza più defezioni ma anche senza continui ed incomprensibili allargamenti. Proprio le adesioni continue e indiscriminate, fondate sulla retorica dell’accesso all’UE come processo di stabilizzazione e di pace sul continente, stanno nei fatti creando le premesse per gettare l’UE nel disordine e nella disintegrazione organizzativa.
Come ogni crisi anche questa può rappresentare una nuova possibilità e per l’UE, o per ciò che ne rimarrà, il referendum britannico può aprire una finestra di opportunità politica per rilanciare l’integrazione cambiandone paradigma. Un primo, possibile, banco di prova è quello della politica estera e di difesa comune; le minacce globali non mancano – dal terrorismo islamico, alla crisi della statualità nel nord Africa fino al nuovo protagonismo russo – proprio nella difesa dei nostri interessi comuni è possibile pensare di ridare slancio ad un progetto politico di crescita comune e prosperità che altrimenti rischia di deflagrare definitivamente in modi al momento non pienamente prevedibili.
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