UE

A Ventotene o si (ri)fà l’Europa o si muore?

23 Agosto 2016

La scelta fortemente voluta da parte di Matteo Renzi di tenere un vertice trilaterale a Ventotene va nella direzione di sollecitare la dimensione simbolica ed emozionale legata alla politica europea, di ricordare ai più da dove ha avuto origine quel progetto politico unico e  straordinario che si chiama Unione Europea. Eppure dopo i simboli, dopo le identificazioni emotive, è necessario che i leader politici imbocchino la strada della pragmaticità, analizzando attentamente i problemi politici che stanno assediando l’Europa. Per questo motivo è complicato dare un giudizio su questo vertice, evitando che le considerazioni da una parte non indugino troppo sulla dimensione retorica, ma dall’altra parte non risultino eccessivamente severe. Cercherò quindi di guardare ad alcuni elementi concreti che sono emersi, provando a contesutalizzarli in un quadro più ampio, conscio che ogni commento a caldo può spesso scontare una minore dose di lucidità.

Un primo elemento che possiamo rilevare è che, all’indomani della Brexit, il Primo Ministro italiano ha cercato di accreditare l’Italia come il primo e più importante interlocutore del direttorio franco-tedesco. Ecco perché, sotto l’aspetto dei rapporti diplomatici e di coordinamento nell’arena europea, l’incontro di Ventotene è stato importante per l’Italia. In secondo luogo, e non è una considerazione particolarmente sorprendente, Matteo Renzi ha cercato di giocare in modo scaltro la carta del “rilancio simbolico” dell’Unione, per strappare a favore dell’Italia altri margini di contrattazione sui vincoli di bilancio. Se però alziamo lo sguardo verso l’orizzonte, allontanandoci un po’ dalle mere questioni italiane, possiamo cominciare ad avere qualche preoccupazione in più rispetto all’utilità di questo incontro.

I temi pesanti che stanno zavorrando l’Europa negli ultimi 6/7 anni stono stati formalmente al centro dell’agenda ma i tre leader non sono riuscuti ad andare oltre le dichiarazioni che, di fatto, sentiamo ripetutamente da almeno tre anni. Il primo macro tema , che possiamo inserire sotto l’etichetta “economia e vincoli di bilancio”, è scivolato tra il detto e il non detto. Renzi ha ricordato come l’Italia abbia fatto le riforme (jobs act, riforma della PA, riforma istituzionale), quanto sia strategica per il continente la crescita economia e la Merkel ha condiviso – ovviamente – entrambe le affermazioni. Il problema è che a questa concordia ha fatto seguito la laconica affermazione della cancelliera che i trattati già prevedono un certo margine di flessibilità al loro interno. Nulla di più. E se l’affermazione sembra galvanizzare qualche osservatore nostrano speranzoso di intravedere per il paese la possibilità di fare un po’ di spesa/investimento in deficit, chi si attendeva una risposta strutturale e di ampio respiro rispetto alle questioni della crescita economica continentale e degli investimenti, è rimasto deluso. O meglio, sono riecheggiate le pesanti parole di Schaeuble che nel suo ruolo di guardiano dell’ortodossia dei vincoli alla spesa, ha affermato che “non è il momento giusto per lavorare a una maggiore integrazione dell’eurozona”. Il ministro delle finanze tedesco ha posto una lapide su ogni prospettiva di maggiore e più efficace forma di integrazione continentale, come ad esempio l’ipotesi di lanciare degli investimenti pubblici europei. Da questo punto di vista perciò, nonostante la Brexit e il rischio recessione, non si vede lontanamente alcuna ipotesi di rilancio.

Il secondo tema delicato è quello dell’immigrazione, scivolato anche esso leggero sulle ali della retorica di un discorso pubblico che non riesce a fare altro che ripetere quanto l’Europa sia impegnata nell’accoglienza ma che i paesi europei non possono accogliere tutti. Se è vero che per Merkel e Hollande era difficile sbilanciarsi di più avendo le elezioni politiche tra un anno, resta sul tappeto la domanda su come declinare in pratica questo principio. Fatto salvo qualche riferimento al ruolo di Frontex, la notizia più rilevante è che la cancelliera Merkel ritiene prioritario salvaguardare il rapporto con la Turchia di Erdogan in merito alla gestione dei flussi migratori, in particolare quelli di provenienza siriana (ma non solo). Questo significa che l’UE e i suoi stati membri continueranno a far finta di nulla rispetto al ruolo destabilizzante della Turchia nell’area mediorientale (per tacere di cosa sta accadendo all’interno del paese con la repressione post tentato golpe). Questa scelta non sorprende più di tanto dato che l’UE ha già deciso di pagare la Turchia per controllare le proprie frontiere al fine di chiudere la rotta balcanica dei migranti,  quella rotta che  interessa direttamente Germania, Austria e i paesi dell’est. Questo però non significa fare un passo in avanti nella gestione comune del problema migratorio perchè: a) non si è fatto cenno ad un intervento strutturale rispetto al Mediterraneo, b) è impensabile che l’UE non si decida ad intervenire direttamente nella gestione/protezione delle proprie frontiere esterne.

Il terzo tema è quello della difesa comune, su cui ha speso qualche parola il Presidente Hollande ma anche qui senza delineare una rotta concreta, scandita da tappe e obiettivi finali. Questo mentre la Russia consolida la sua posizione nel Mediterraneo tramite il controllo dei porti siriani, stringe i suoi legami con l’Iran, comincia a ricucire con Ankara e si impegna in manovre militari in Crimea e ai confini ucraini. Una non velata risposta alla decisione della NATO di stanziare battaglioni in Polonia e nei paesi Baltici, in una sorta di “avvertimento” alla Russia e di azione di rassicurazione per i membri NATO dell’est Europa.

Proprio questo ultimo punto sembra inquadrare bene la situazione drammatica in cui si dibatte l’Unione Europea, ossia l’assoluta incapacità di definire le proprie priorità strategiche e dotarsi degli strumenti per perseguire i propri interessi. Il tema della sicurezza e delle difesa comune è il tema che fa da filo conduttore a tutti gli altri problemi che attanagliano il continente e il vertice di Ventotene non ha fatto un singolo passo in avanti per affrontare la questione. L’UE si culla ancora nell’illusione che basti l’ombrello della NATO, e quindi il ruolo degli USA, per far fronte al bisogno di garantire la propria sicurezza. Scherzando (ma non troppo) potremmo dire che il grande assente a Ventotene fosse proprio Obama, ossia colui che è chiamato a garantire la sicurezza dell’Europa, dato che i paesi europei non sono in grado di farlo autonomamente. E sono gli stessi USA a chiedere da tempo all’Europa un maggiore impegno nel garantire la difesa del continente: l’UE sembra non aver ancora accettato il declino della fase unipolare e del ruolo egemone degli Stati Uniti.

Ottemperare alla sicurezza e all’integrità dei confini e garantire la sicurezza del proprio territorio sono gli elementi che definiscono un’entità statale dotata di sovranità e l’UE, che uno stato non è, deve decidere se affrontare la questione della propria natura istituzionale decidendo cosa fare sul punto della difesa comune. Perché impostare finalmente e concretamente un progetto attivo di difesa comune sarebbe il primo grande e concreto passo verso il rilancio dell’Unione; questo perché sarebbe il primo passaggio verso la definizione di una qualche forma embrionale di statualità sovranazionale sul continente. Sono anni che tutti, dai leader europei ai più autorevoli commentatori, ripetono che l’Europa deve diventare finalmente un’unione politica e non solo un’area economica: per farlo, oltre essersi dotata di una moneta comune, dovrebbe definire un sistema di tassazione e di welfare (almeno embrionale) comune e darsi dei confini stabili e una difesa comune. Quest’ultimo strumento è ancor più necessario se l’UE vuole contare qualcosa negli scenari politici globali dove al momento non è in grado di giocare alcun ruolo. Ucraina, Libia e Siria sono tutte crisi “nel cortile” dell’Europa ma l’UE è marginale in tutte e tre, non essendo in grado di imporre il proprio punto di vista e garantire i propri interessi. Questo fa sì che tali crisi stiano prendendo una piega destinata a danneggiare in modo sempre più profondo l’Europa.

Affinché il progetto comunitario si rilanci è necessario che siano gli stati membri a far ripartire la macchina imballata, dato che è velleitario aspettarsi iniziative dalle istituzioni comunitarie. Le ripetute crisi degli ultimi anni, da quella greca alla Brexit, hanno dimostrato la debolezza strutturale di Commissione e Parlamento: la prima ha completamente perso lo slancio politico degli anni ’90 e si è richiusa nella sua dimensione di super burocrazia. E dai tecnici è impensabile che arrivino soluzioni politiche. Il Parlamento ha acquisito sempre più forza legislativa ma non è in grado di rappresentare un punto di vista politico, perché non è in grado di farsi portavoce e rappresentante dei conflitti politici. Il dato paradossale è quindi quello per cui il rilancio dell’UE è necessariamente legato a passaggi intergovernativi in cui gli stati decidano di rimettere in gioco parte della loro sovranità. Ovviamente seguendo il criterio dell’Europa a più velocità considerando che, ad esempio, il blocco dei paesi dell’est non sembra molto intenzionato a richiedere più Europa.

Il maxi allargamento ad est del 2004 resta il più grande errore politico dell’Unione che si è autonomamente creata un poderoso ostacolo al rafforzamento del modello sovranazionale. I paesi dell’est, liberatisi recentemente dal giogo dell’Impero Sovietico, non hanno alcuna intenzione di mettersi sotto il tallone di un altro “impero”, con capitale Bruxelles. Per loro entrare nell’UE era fondamentale per: a) garantirsi crescita economica, b) garantirsi un rapporto stretto con la NATO e gli USA in chiave anti russa. Due obiettivi in conflitto con gli interessi più ampi dell’UE, che al momento si trova bloccata in una situazione di sclerosi proprio perché non è in grado – e non ha gli strumenti istituzionali adatti – di risolvere tali conflitti strutturali. Paradigmatico è il rapporto con la Russia: per i paesi dell’est è una minaccia (vedi Ucraina), per i paesi dell’ovest è uno straordinario partner commerciale (nonché un alleato in chiave anti estremismo islamico e nella gestione della crisi siriana).

Il vertice di Ventotene sembra quindi essere deludente non tanto perché non ha proposto possibili soluzioni alle singole crisi che attanagliano l’UE (sarebbe stato impensabile e velleitario), ma perché non è stato in grado di dare una direzione di marcia all’UE, di stabilire quell’agenda delle priorità che tanto serve al continente. La continua e perdurante assenza di un leviatano europeo ci ricorda che senza potere e autorità è difficile garantire integrazione, e diventa complesso gestire gli stati di crisi e di eccezione che possono sconvolgere un ordine politico. Per questi motivi l’impressione è che Ventotene sia stata solo una tappa di un lungo percorso di disgregazione, invece che l’occasione di un rilancio politico di ampio respiro.

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