Europa

Gli interessi italiani in gioco nell’accordo di libero scambio con gli Usa

6 Dicembre 2014

Se siete a Chicago e avete voglia di una mela Val di Non, non potete mangiarla. Oggi infatti, se questo tipo di mela fosse venduta negli Usa, avrebbe un serio svantaggio competitivo che la renderebbe subito fuori mercato: dopo aver attraversato l’oceano sarebbe sottoposta ad altre due ispezioni, a causa di regole di controllo differenti inerenti alla sicurezza alimentare. Immaginatevi ora i test di sicurezza delle automobili: anche qui, gli standard europei e americani sono diversi. Per questo se un’azienda vuole vendere un’auto prodotta nel Vecchio Continente in suolo americano, deve sobbarcarsi non pochi costi.

Sono questi due esempi che spiegano cosa andrà a toccare il Ttip, acronimo di Transatlantic Trade and Investment Partnership, o Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti. Si punta a un mercato unico sull’asse Usa-Ue e a unificare i modelli di produzione. Dalla spina per la corrente al paraurti della macchina, dall’olio di oliva alla mela, gli standard di produzione e controllo sarebbero gli stessi, abbattendo i costi. Tutto così semplice? No, i dubbi sono tanti così come i (falsi) timori. Partiamo dal capire cos’è il Ttip: un accordo di libero scambio in corso di negoziato tra l’Unione Europea e gli Stati Uniti, con l’obiettivo di rimuovere le barriere commerciali per facilitare l’acquisto e la vendita di beni e servizi fra le due aree e di promuovere gli investimenti reciproci attraverso l’armonizzazione di standard (tecnologici e sanitari) e regolamenti (per esempio le procedure d’appalto). Non si tratta dunque solo di ridurre i dazi (che sono già in media abbastanza bassi, ammontando circa al 3%), ma anche e soprattutto di eliminare progressivamente le barriere doganali non tariffarie.

È la Commissione Europea che sta trattando con gli Usa su questo tema, non i parlamenti nazionali. L’Unione Europea infatti ha la competenza esclusiva in materia di commercio con l’estero. Se ne occupa nello specifico un team di negoziator (vedi qui i nomi),  che agiscono sulle indicazioni della Direzione generale per il commercio della Commissione europea, struttura che fa capo al commissario  Cecilia Malmstrom. L’ultima parola sulla proposta della Commissione relativa al Ttip spetterà però al Parlamento Europeo. In realtà ci sono molti altri attori che ruotano intorno al futuro accordo: camere di commercio, think-tank e, secondo alcune fonti, personaggi come Romano Prodi, Giulio Tremonti, Emma Marcegaglia, John Elkann, e aziende come Eni e Telecom.

 

Manca una consultazione pubblica

L’interesse di grandi gruppi aziendali per questo tema è indicativo del fatto che l’azione di lobbying, sempre molto intensa a Bruxelles per quanto riguarda le politiche comunitarie, in questo caso potrebbe esserlo ancora di più in ragione degli enormi interessi in gioco. Le economie di Usa ed Ue sono abbastanza simili in termini di settori produttivi di riferimento: dunque, aprire al commercio tra beni e servizi dello stesso tipo stimola la concorrenza, e può portare così a migliorare la qualità. Proprio per lo stesso motivo, dall’altro lato può anche indurre nelle aziende il timore di perdere quote di mercato. Ecco dunque spiegato perché i lobbisti, da entrambe le sponde dell’Atlantico, sono particolarmente impegnati su questo fronte.

Il lobbying si estende però anche alle associazioni rappresentanti della società civile. Da più parti, infatti, sono stati sollevati dubbi e perplessità sui reali contenuti dell’accordo e timori per le ripercussioni sui consumatori, a causa del riserbo mantenuto sui round negoziali. Grazie alle pressioni del viceministro allo Sviluppo economico Carlo Calenda, sappiamo ora entro quali confini la Commissione si sta muovendo, dato che il documento contenente il mandato negoziale conferito alla Commissione è stato pubblicato. Ciò permette di far luce su alcuni aspetti, e si può smentire per esempio che gli Ogm faranno parte dell’accordo. «È complicato trovare un accordo nella sola Europa sul tema – spiega una fonte – e se comprendessero gli Ogm nel trattato non vedremmo mai la firma».

Il dibattito, tuttavia, rimane precluso al pubblico, con il rischio di fomentare paura e preoccupazione di ciò che non si conosce. Epha, un network di organizzazioni no profit che lavora nel settore della sanità pubblica, chiede si faccia una consultazione pubblica su Internet, per evitare errori ad accordo già firmato e permettere a tutti i settori coinvolti di dire la loro. Nel dibattito, così come spiega Epha, è essenziale ci siano consultazioni pubbliche, come accade ad esempio in sede World trade organization (Wto) e World intellectual property organization (Wipo), soprattutto nelle fasi chiave, prima che sia approvato dal Consiglio. «Con un dibattito pubblico  – afferma Alessia Mosca, parlamentare europea in Commissione commercio internazionale – tante paure potrebbero essere smontate, e grazie all’apporto dei consumatori si potrebbe avere un accordo migliore».

 

Gli interessi in gioco per il made in Italy

Per le piccole e medie imprese sarà di certo più semplice esportare, grazie all’abbattimento dei dazi, ma soprattutto, come riportato dai primi due esempi, per il taglio dei costi dovuto all’uniformità degli standard di produzione e di sicurezza. È noto ad esempio che per esportare le scarpe i dazi ammontino al 10%, per il tessile al 5% e per il lusso arrivino a punte del 16 per cento. «Anziché fare 10 paraurti con specifiche italiane e dieci con specifiche americane, se ne fanno 20 uguali, con un costo più basso», spiega Alberto Forchielli, presidente di Osservatorio Asia. Secondo Alessia Mosca, i settori che beneficeranno maggiormente dell’accordo saranno l’agroalimentare, la meccatronica, le scienze della vita, la manifattura di qualità e in particolare i capi d’alta gamma, data la presenza di barriere tariffarie in settori che rappresentano punte d’eccellenza e di cui l’Italia è fra i primi esportatori mondiali. Calenda recentemente ha anche ammesso che all’interno del trattato andrà inserita una clausola di “non discriminazione”, attualmente non prevista, che consentirebbe alle nostre imprese di non essere discriminate negli States, cosa che accade in alcuni settori per effetto della clausola “Buy American”, ad esempio, introdotta durante la crisi del 2008-9 nelle procedure di appalto pubblico al fine di sostenere la imprese locali.

Se il mercato si apre, ad esempio, arriverà la carne americana senza che sia indicata la provenienza o il possibile utilizzo di antibiotici o ormoni per ingrassare gli animali. In Italia le regole da questo punto di vista sono più rigide, dal codice di tracciabilità all’indicazione della provenienza. Gli Usa premono affinché le identità geografiche non siano riconosciute, ma questo costituirebbe per noi un grande svantaggio, perché il consumatore non sarebbe in grado di distinguere i prodotti di qualità. Gli standard di sicurezza italiani sono tra i più elevati a livello globale, eppure il fatto che un certo tipo di olio extravergine d’oliva sia coltivato con un certo tipo di pesticida non va bene per la Food and Drug Administration, che però permette l’uso degli ormoni per ingrassare le carni. Sarà molto difficile lavorare su queste contraddizioni, soprattutto se non si coinvolgeranno i lavoratori del settore. Esiste poi il fenomeno del cosiddetto “Italian sounding”, ovvero l’utilizzo di denominazioni geografiche, immagini e marchi che evocano l’Italia per la promozione e vendita di prodotti in terra a stelle e strisce. L’ufficio stampa dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare, con sede a Parma, dichiara di non sapere nulla del Ttip e di non essere al lavoro su queste tematiche: l’assenza nel dibattito della massima autorità europea in materia suona quantomeno strana.

«I costi per la salute, l’ambiente, la sicurezza dei cittadini sono enormi – spiega il premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz – e i benefici vanno alle multinazionali». È questo è l’altro punto oscuro, relativo all’ISDS, Investor-State Dispute Settlement. Se un’azienda ritiene che una legge dello stato dove investe la stia penalizzando, si può rivolgere a questo arbitrato internazionale. In questo modo si toglie potere ai singoli Stati: se le multinazionali possono andare in arbitrato, è ovvio che potrebbero dominare a scapito delle realtà più piccole. Inoltre, di tutti i procedimenti aperti presso i tribunali ISDS a livello globale, circa 15 avvocati risolvono oltre la metà dei casi: occorrerebbe da questo punto di vista verificare se questi avvocati presentino conflitti di interesse, giocando le partite di qualcun altro.

Tanto i negoziatori europei quanto gli americani hanno fretta di apporre la firma a questo accordo che si prevede possa entrare in vigore alla fine del 2016, ovvero alla fine della presidenza Obama, secondo la stessa Mosca. Tra gli effetti possibili, sono 140mila i posti di lavoro che potrebbero nascere dal Ttip in Italia. Per il Centre Economic Policy Research, l’effetto sulla crescita nell’Ue sarà pari allo 0,4%, con un aumento dell’export verso gli Usa pari al 28,6%, mentre negli Usa la crescita sarà di un modesto 0,39 per cento.

 

Lo scacchiere dei trattati commerciali

Il Ttip è strategico  dal punto di vista geopolitico, e sotto questo aspetto è più importante per gli Usa. La politica commerciale di Washington è infatti oggi basata sull’accordo atlantico e quello con i Paesi asiatici (più qualche latinoamericano) che sono membri della Trans-Pacific partnership (Tpp). Giungere ad una conclusione degli accordi potrebbe consentire di contenere la Cina dal punto di vista economico. Non è un caso che Pechino stia cercando di portare avanti un proprio progetto di libero scambio con i Paesi dell’Asia-Pacifico: della proposta cinese, denominata Free-trade area of the Asia-Pacific (Ftaap), se ne è parlato recentemente al forum Apec (che per l’appunto riunisce gli Stati dell’area) e i membri hanno deciso di commissionare uno studio per valutare i potenziali benefici di tale accordo.

In conclusione, la Ttip servirà davvero a portare vantaggi tangibili sia per i produttori sia per i consumatori e a contribuire al rilancio dell’economia europea? Molto dipenderà dal contenuto e dal livello di ambizione dell’accordo. Al momento, ad esempio, la dichiarazione congiunta dei Paesi UE più gli USA, prodotta al termine di un incontro ristretto avvenuto al recente vertice G20 di Brisbane, si limita a ribadire un impegno ad accelerare i negoziati senza però entrare nel merito di contenuti “spinosi”, come appunto la questione degli standard, sui quali ancora non c’è convergenza. Il processo negoziale dovrebbe prendere velocità l’anno prossimo: risultato attualmente sembra difficile raggiungere, ma che è una scadenza obbligata se si vuole evitare un ulteriore ritardo di più di un anno visto che nel 2016 dovrà essere eletto il successore di Obama. D’altra parte, però, il rischio di voler fare le cose in fretta potrebbe portare ad un accordo al ribasso, escludendo alcuni capitoli fondamentali, come ad esempio la regolazione in ambito medico-sanitario.

(ha collaborato Mariangela Fancello)

Gli autori sono tra i responsabili de Il Caffè Geopolitico, associazione culturale che promuove la cultura degli esteri in Italia

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