Spagna

Spagna, per la terza volta dal 2015 alle urne. Regna l’ingovernabilità

15 Febbraio 2019

Il granitico bipartitismo spagnolo, che per anni, ha alternato governi di destra a quelli di sinistra è ormai un lontano ricordo nel palazzo della Moncloa dove si decidono le sorti del Paese. Benedetta da una crescita che aumenta a ogni trimestre, l’economia spagnola è tornata d’esempio per l’Europa, lontana certo, dall’esserne ancora la locomotiva trainante, come ai tempi d’oro tra il 2000 e il 2008, mentre la governabilità è un tremendo de profundis.

Dopo la bocciatura della Finanziaria per il 2019, l’esecutivo, minoritario, del socialista Pedro Sánchez, puro madrileno, classe 1972, non ha avuto altra strada che convocare le elezioni, in anticipo di un anno e mezzo. La Spagna andrà alle urne il prossimo 28 aprile, non il 26 maggio, in contemporanea con le europee, a cui si sommano municipali e regionali.
Tradito dalla sfiducia dei partiti separatisti catalani, non soddisfatti del taglio drastico delle tasse della Catalogna e del pacchetto di autonomie concessi, Sánchez passerà alla storia come il premier meteora che ha attraversato il governo spagnolo per meno di otto mesi. Il suo incarico gli era piovuto addosso, grazie a un cavillo della Costituzione che permette, anche alla minoranza, di votare una petizione di sfiducia contro il premier.

È così è stato nel giugno del 2018, quando il Popolare Mariano Rajoy ha dovuto dimettersi, e incredulo e ferito, ha abbandonato la politica attiva, ritornando a vivere nel suo paesino gallego d’origine. Lui, il grigio politico con l’aspetto del ragioniere, che era riuscito a mediare con la Troika e rimettendo i conti del debito pubblico spagnolo apposto, riuscendo persino a diminuire di tre punti il pesante tasso di disoccupazione che opprimeva, alla dine del governo socialista la Spagna, basata da un euforico benessere di spese e mutui quei regalati, ai feroci morsi della crisi finanziaria, del credit crunch e delle settore edile imploso su se stesso.

Al governo Sánchez, approfittando del buon stato di salute dei conti pubblici e di una ritornata crescita del Pil, ha aumentato il minimo salariale da 700 a 900 euro mensili, mettendo mano anche alle pensioni, ferme da una decina d’anni. «Abbiamo pensato a una Finanziaria per chi ha meno, per i più deboli, che restituisca la speranza a chi ha perso il lavoro e chi lo ha trovato da poco e ha bisogno d’aiuto dallo Stato», ha dichiarato nell’emiciclo di Madrid Sánchez. I suoi 84 scranni non hanno tenuto e hanno perso l’appoggio fondamentale di PdCat ed Era, le forze indipendentiste catalane che da tempo pretendevano un referendum d’autodeterminazione legale e con la benedizione dell’esecutivo. «Non abbiamo certo al ricatto dei separatisti», ha detto Carmen Montero, ministra delle Finanze. «Ci avevano chiesto ciò che non è possibile (la Costituzione spagnole del 1978 non ammette la celebrazione di nessun referendum, e soprattutto, non permette quello per l’indipendenza, ndr)». La concessione del referendum, sarebbe dovuta essere preceduta da una commissione di esame e modifica della Carta, con tempi lunghi e un percorso complicato che richiede anche la riforma delle norme dei codici privati e pubblici.

E poi una simile generosità nei confronti dei catalani sarebbe stata vista con grandissima invidia da parte dei Paesi Baschi che hanno una lunga tradizione di lotte, soprattuto terroristiche, per liberarsi da Madrid e che sono riusciti a vincere l’Eta e moderare i nazionalismi. Per no parlare di Aragona, Galizia e Andalusia, altre comunità dove la scintilla dell’indipendenza è sempre ponta ad accendersi e a infiammare la scena politica e la società.
Quindi, perché sì ai catalani e no ai Baschi? Forse perché soltanto la Catalogna vale il 18% del Lil nazionale e, quindi, è meglio che Madrid, questa gallina dalle uovo d’oro, se la tenga ben stretta. Se ragioniamo un po’ con la testa di un separatista che si crede una gallina spremuta dalla centralista Madrid.
Il nuovo governo che si comporrà dalle urne di fine aprile rischia di peccare dello stesso peccato per la terza volta: l’ingovernabilità. Da poco meno di dieci anni, con l’ingresso nel Parlamento dei partito populisti, nati dal basso, dalla gente che si incontrava dava appuntamento sul Web e incontrava in strada, ha creato, prima Unidos Podemos, sorto sulle ceneri degli ex Indignados, che tra il 2009 e il 2010 occuparono per mesi le piazze di Madrid e Barcellona, chiedendo una nuova classe dirigente, composta di persone comuni, non indagate e non asservite alle banche e alle multinazionali. E a Unidos Podemos, guidato da Pablo Iglesias, il professore madrileno trentenne di diritto pubblico, col codino da tanguero e il cuore a sinistra, si è affiancato ben presto, l’altro lato dei populisti, quello di centrodestra, di Ciudadanos, nato a Barcellona per pera di Pablo Rivera, vicino alla borghesia catalana e alle piccole e medie imprese. Due forze politiche che in meno di dieci anni hanno eroso voti si ai Socialisti (Psoe) che ai Popolari (PP), dando però instabilità ai due seguenti esecutivi scelti col voto popolare.

Se i socialisti hanno acuto chiedere l’appoggio a Podemos, per governare in questi otto mesi scarsi, così il PP ha dovuto convincere Ciudadanos e accettare l’estrema destra di Vox, partito rivelazione delle elezioni andaluse del 2018, Guidato da Santiago Abescal che vuoi delegittimare il diritto ad abortire per le donne e rimpatriare tutti gli immigrati irregolari. Vox, che cresce come un fungo sono la pioggia, è tirato tra il 12 e il 16 per cento. E sarà l’ago della bilancia delle prossime elezioni. Virerà sicuramente a desta la Spagna, a maggio, con un esecutivo di maggioranza di destra, co alleati estremisti che prima o poi, presenteranno il conto del loro appoggio e che il bravo e giovano Pablo Casado, erede di Rajoy, dovrà tenere a bada per non fare la fine che ha fatto Sánchez con il voltafaccia dei separatisti di Barcellona.

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