Spagna
Catalogna indipendente, parlano gli spagnoli (catalani inclusi) all’estero
Oggi i cittadini della Spagna stanno trattenendo il respiro. Da Bilbao a Cadice, da Barcellona a Vigo, 46 milioni di spagnoli sono in attesa di uno dei più importanti discorsi della storia nazionale. Quello che pronuncerà alle 18 il presidente della Generalitat, Carles Puigdemont. Che potrebbe annunciare la temutissima dichiarazione unilaterale di indipendenza. Ad avallarla, a detta del governo catalano, i 2 milioni di sì espressi nel referendum illegale di domenica 1° ottobre.
La crisi, la più grave della giovane democrazia spagnola, ha una dimensione politica e istituzionale gigantesca, schiacciante. Ma c’è anche la dimensione economica e finanziaria, con aziende e banche che lasciano la Catalogna, e i capitali in fuga temendo un collasso post-indipendenza. E poi ci sono le persone. 46 milioni di cittadini incollati alle tv, agli smartphone e alla radio in attesa di sapere cosa succederà. Tra loro c’è rabbia, paura, ansia, preoccupazione, scetticismo, disgusto. Ma al di là dei bracci di ferro tra Madrid e Barcellona, al di là delle analisi dei soliti esperti e opinion leaders, sono in ballo i destini di uomini e donne con famiglie e amici, carriere, sogni, mutui da pagare e preoccupazioni quotidiane.
E proprio con la “gente comune” hanno voluto parlare Gli Stati Generali. Alcuni sono strenui difensori dell’unità nazionale, altri sognano l’indipendenza della Catalogna. Alcuni vogliono il dialogo, altri sono ancora sotto shock per le immagini della polizia spagnola nelle strade e piazze di Barcellona. C’è chi disprezza i leader catalanisti, c’è chi appoggia le richieste della Catalogna pur non essendo neanche catalano.
Queste persone, a prescindere dall’opinione che ciascuno di noi ha sulla crisi, meritano tutte quante rispetto. C’è un’altra cosa che le accomuna: vivono fuori dalla Spagna. La distanza, si sa, aiuta talvolta a vedere i fatti con più distacco e oggettività. Ma non per questo li rende meno dolorosi.
Una di queste persone è Silvia, 47 anni, di Cadice (Andalusia). Risiede in Italia da circa 20 anni. «Il telefono mi si scarica ogni due ore – ci racconta –, ricevo in continuazione messaggi da parenti, amici e conoscenti. Sono davvero in ansia. Ciò che sta accadendo è molto grave, segnerà un prima e un dopo». Silvia, che vive e lavora a Venezia Mestre e ha due figlie, sottolinea di essere «fiera come non mai di essere spagnola. Di appartenere alla Spagna che piace a me, quella che include il catalano, il gallego, il basco. Penso che, insieme, siamo un Paese forte, ricco e bello».
Sul governo indipendentista e le sue idee, la posizione di Silvia è molto chiara. «Non penso che stiano adducendo motivi validi per separarsi. Ad esempio, denunciano la corruzione al livello del governo centrale senza mai soffermarsi su quella di casa loro, come se non esistesse». Alle persone che, in Catalogna, vorrebbero davvero appartenere a uno Stato indipendente dice: «se non si sentono spagnoli mi dispiace, però bisogna fare le cose secondo la legge. Cosa succederebbe se chiunque volesse, potesse dire “ah, da oggi non sono più spagnolo, o catalano, o italiano”, e separarsi?»
Concorda con lei Lucía, 23 anni, originaria della Galizia (territorio che, al pari della Catalogna, è una comunità autonoma con un’altra lingua ufficiale, il galego). A suo parere «tutti hanno il diritto di esprimersi ma sempre rispettando la legge, perché se vogliamo vivere in una democrazia bisogna rispettare le leggi. E il referendum del 1° ottobre era un’iniziativa che, secondo la costituzione, non si poteva fare». Come Silvia, anche Lucía si dice preoccupata. «Ciò che sta accadendo è un’assurdità. Si può benissimo appartenere alla Spagna ed essere fedele alle proprie radici».
Elisabet è catalana, della bella città di Reus. Ha 26 anni e da un paio d’anni insegna lingua, cultura e letteratura catalana in un’università italiana. Vista la portata storica dell’evento, racconta, è tornata in Catalogna per votare a favore dell’indipendenza. «Quello che mi preoccupa, e molto, è il modo in cui il governo spagnolo sta gestendo la situazione. In Catalogna questo processo è vissuto con entusiasmo e grande impegno civile. So che lo Stato ha i suoi doveri però mi aspettavo una maggiore capacità di rispondere alle istanze indipendentiste attraverso la politica. La repressione è una strategia pericolosa, distruttiva direi, e senz’altro poco efficace nel lungo periodo».
Elisabet condivide l’argomento secondo cui la Catalogna è discriminata dallo Stato centrale dal punto di vista culturale e linguistico. Nella comunità autonoma, è bene ricordarlo, il catalano è una lingua ufficiale al pari del castigliano e l’occitano, e l’istruzione è una materia di competenza esclusiva della Generalitat. «Credo che lo Stato spagnolo si sia costruito su un’idea molto omogenea dell’identità e della cultura nazionale, e che abbia difficoltà a gestire la propria diversità culturale. Le culture e le lingue periferiche sono state tollerate unicamente come qualcosa di folklorico e limitate all’ambito locale o domestico. Appena queste culture hanno voluto partecipare al dialogo internazionale a parità di condizioni, sono state percepite come una minaccia. Ma una cultura forte non dovrebbe temere la sua diversità, anzi, dovrebbe incoraggiarla».
Secondo la madrilena Aroa, che ha 32 anni e vive a Londra, il referendum del 1° ottobre era contro la legge, «ma le violenze che abbiamo visto sono state del tutto ingiustificate. Credo che bisognerebbe permettere ai catalani di votare tranquillamente, e non obbligarli a restare in Spagna se non vogliono». Anche lei è preoccupata, teme che il conflitto possa proseguire o addirittura peggiorare. «Credo che molti in Spagna siano in qualche modo offesi perché certi catalani non vogliono più essere spagnoli… per me però è assurdo offendersi per una cosa del genere. Però il fatto è che molti catalani si sono davvero radicalizzati. Sembra che odino gli spagnoli, ma l’immensa maggioranza degli spagnoli non gli ha mai fatto niente di male». A suo parere però gli indipendentisti sono una minoranza. «Per il momento mi pare un gruppetto di gente che si sta impuntando, ma penso che tutto tornerà alla normalità. Credo che la Catalogna finirà per restare in Spagna».
Secondo Noelia, una catalana trentaquattrenne che vive ad Amsterdam da 8 anni, i catalani potrebbero stare meglio in uno Stato indipendente. Purché le cose si facciano con seny, il buon senso storicamente attribuito al popolo catalano. «Che la Generalitat non condivida una roadmap con i cittadini è preoccupante. Che succede con il nostro passaporto? Quali Paesi riconoscerebbero lo Stato catalano? E i conti in banca e le pensioni? Sarebbero pignorati? Ci sono molte domande a cui non sono state date risposte, e non si può dichiarare l’indipendenza senza esporre un piano esaustivo di come avverrà e con quali conseguenze». Per quanto riguarda le ragioni economiche dell’indipendentismo, per lei sono valide. «Non si tratta tanto del contributo della Catalogna allo Stato spagnolo, ma piuttosto della redistribuzione. La Catalogna è seriamente indebitata pur essendo, in teoria, una delle comunità autonome più ricche. Non è una cosa logica».
Se fosse stata in Catalogna, Noelia sarebbe andata a votare al referendum. «Anche se era illegale, noi cittadini abbiamo diritti e doveri. E il diritto all’autodeterminazione e alla libertà d’espressione sono importanti quanto le leggi. Si è provato in tutti i modi a dialogare per organizzare delle consultazioni che fossero legali ma dall’altra parte c’è stata indifferenza o semplice divieto, per anni. Quale sarebbe la soluzione?» Purtroppo, continua Noelia, la Catalogna e tutta la Spagna stanno vivendo in un brutto clima. Esasperato, violento, ingiusto. Ma non del tutto nuovo.
«Gli insulti sui social media e l’odio che sta provocando questa situazione non sono cominciati due domeniche fa. È una pentola a pressione che era sul fuoco da parecchio tempo». E conclude: «io amo la Spagna e a casa mia ho sempre parlato spagnolo, però non voglio far parte di una Spagna piena di odio, recriminazioni e propaganda».
In effetti sono molti, in Catalogna, a parlare castigliano in famiglia e, perlopiù, nella vita quotidiana. Il 50,7%, secondo i dati della Generalitat. Talvolta si tratta di persone emigrate anni fa da altre parti della Spagna, soprattutto per ragioni economiche. Come i cugini di Carmen (il nome è di fantasia), cinquantenne sivigliana che vive e lavora in una città del nord Italia. A Gli Stati Generali racconta: «i figli e nipoti dei miei cugini sono nati in Catalogna, parlano catalano e si considerano catalani e spagnoli. Vivono in piccoli paesi dell’entroterra e mi raccontano che lì le loro relazioni sociali sono radicalmente cambiate. Ora gli fanno notare che non sono di quelle parti, che non sono catalani da sempre, e che “spagnolo” equivale a “fascista”. Credo che la situazione stia raggiungendo livelli preoccupanti, non solo dal punto di vista politico, ma sociale e umano. Ed è una cosa che mi rattrista profondamente. Pare che per molti catalani ormai, tutti gli spagnoli siano violenti e antidemocratici. E non è così».
Anche per Carmen il diritto al voto non andrebbe mai calpestato. «So che la Costituzione non permetteva il referendum del 1° ottobre però credo che Madrid abbia aspettato decisamente troppo per sistemare le cose. E sistemarle come, poi? Com’è successo domenica? Non sono per niente d’accordo. Dov’è il paese democratico che siamo in realtà? Dov’è il dialogo, che è quello che ci vorrebbe? Perché non si è cercata qualche altra strada?». Ai catalanisti che dicono che lo Stato deruba la Catalogna Carmen risponde, sorridendo: «più hai soldi più lo Stato te ne prende, il sistema fiscale funziona così! Penso che i problemi si possano risolvere in altro modo, che non serva andarsene sbattendo la porta. Forse molti catalani pensano che potrebbero essere autosufficienti, ma io non ne sono affatto convinta».
Su questo concorda Xavi (nome di fantasia), un imprenditore catalano trasferitosi in Italia quasi trent’anni fa per amore di sua moglie, italiana. «Il mondo è sempre più globalizzato e siamo tutti interdipendenti… uno Stato catalano sarebbe minuscolo, con un peso pari a zero in qualunque campo. E poi si è già visto l’effetto che ha avuto la sola ipotesi di una dichiarazione d’indipendenza negli ultimi giorni. Quanti gruppi e aziende hanno trasferito la loro sede fuori dalla Catalogna? Questo è un segnale che tutti dovrebbero cogliere». Parlando del referendum del 1° ottobre, però, crede che sia inevitabile ammirare la tenacia del popolo catalano che vuole l’indipendenza. «Sarà per i racconti dei miei genitori e dei miei nonni, che non potevano nemmeno parlare catalano sotto Franco… ma quando alla tv ho visto le file di persone in attesa di votare, e la polizia prendere a manganellate gente che stava ferma, con le braccia alzate… lo ammetto, mi sono commosso».
Lou, 37 anni, è di Malaga, ma da qualche tempo vive a Londra. Per lui, il fatto che il referendum fosse illegale significa solo che sarà più complicato trovare il modo di esprimere la volontà popolare sull’indipendenza della Catalogna. Ma non che non sia legittimo farlo. «A me pare giustissimo che i catalani, come nazione, siano messi nelle condizioni di decidere se vogliono o meno restare in Spagna».
Lou ammette di essere preoccupato, ma per tutta la Spagna, e da ben prima che la “questione catalana” monopolizzasse l’attenzione dei media per settimane. «Mi preoccupa molto che un paese con così tante risorse e potenzialità come la Spagna, sia messo com’è messo. Con fiumi di gente che se ne va perché non trova lavoro o lo trova a pessime condizioni, ad esempio».
Sulle rivendicazioni economiche dei catalanisti Lou dice: «da una parte le trovo valide, dall’altra no… anche in Andalusia abbiamo i nostri problemi, ma non per questo chiediamo l’indipendenza. Però io credo che se non si è catalani, se non si vive in Catalogna, è molto difficile avere un’opinione obiettiva. Ci sono media di destra che ti vendono una cosa e media di sinistra che te ne vendono un’altra… e la politica, in generale, è un po’ corrotta. Bisognerebbe parlare con i catalani per capire cosa li preoccupa veramente, e che direzione vorrebbero prendere».
Insomma, bisogna parlarsi. Pur avendo idee diverse.
In copertina: View of the square called Puerta del Sol, di multisanti
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