Russia

Tra blackout e allarmi aerei, viaggio nella vita sotterranea di Kharkiv

5 Maggio 2024

I black out quotidiani come il pane. Gli allarmi aerei ogni poche ore. I palazzi a pezzi. E il botto dei missili che si confonde con il rumore del traffico di giorno; e squarcia il silenzio, la notte. Benvenuti a Kharkiv, la seconda città più grande dell’Ucraina. I russi la vorrebbero seppellire sotto un cumulo di paura e di macerie. Ma gli ucraini non si arrendono e stanno costruendo una seconda vita, sotto terra.

Kharkiv (Ucraina) – C’è Al Jazeera, ci sono gli americani della PBS e pure i francesi di France Press: insomma tutto un gregge di giornalisti. Siamo lì apposta per vederle: eppure, quando spuntano le aule, un po’ mi prendono alla sprovvista comunque. Sono parallelepipedi di vetro e metallo, con dentro tutto quello che ci dovrebbe essere in una scuola normale: banchi, cattedre, lavagne elettroniche, giocattoli. Solo che siamo in un sottopasso della metro di Kharkiv.

Anna Zaikina, l’addetta stampa ucraina che ci fa da cicerone, ci spiega un po’ come è cominciato tutto. Da quando è scoppiata la guerra, le scuole di questa città – 158 in totale, 50mila studenti – hanno chiuso i battenti. Troppo pericoloso per i ragazzi andare in aula, perché sì, i russi mica si sono fatti grandi problemi: per non sbagliarsi, hanno bombardato pure quelle.

Così si è continuato a studiare, ovvio, ma online. Però online non è la stessa cosa. Ecco dunque l’idea di fare temporaneamente lezione sottoterra. Ma dove? La soluzione più semplice è stata appunto adattare spazi all’interno delle stazioni della metro, mettendo impianti di areazione ad hoc e aggiungendo pure il riscaldamento.

Duemila alunni underground

All’inizio dell’anno scolastico, a settembre, si è cominciato con 900 ragazzi. L’esperimento ha funzionato e così si è andati avanti ad adattare corridoi e sottopassi un po’ dappertutto. Oggi, in totale, cinque diverse fermate della metro ospitano 107 classi e 2.212 alunni, dai 6 ai 16 anni.

 

Ovviamente non ci sono finestre e – estate o inverno poco importa – qui la la luce del sole non entra e non entrerà mai. Un cortile, un giardinetto per giocare rimane un sogno impossibile. E francamente più che a scuola sembra di stare in un padiglione dell’acquario di Genova. Eppure i ragazzi, quando ci vedono arrivare, sono tutti un sorriso.

Anna finisce di spiegare, da il rompete le righe e si scatena il safari: ciascuno cerca la sua preda da intervistare. Quelli di Al Jazeera, che stavano accanto a me, balzano subito sull’esemplare più ambito in queste situazioni: il bambino. Io mi accontento di un’insegnante.

«Sì, i nostri alunni sono molto contenti di venire qui: possono parlare con i loro amici e stare con i loro insegnanti preferiti», mi dice con un pizzico di ironia Lyudmila Demchenko, una delle prof. «E’ che davvero fare lezioni in presenza è diverso. E il più grande vantaggio è proprio che possono socializzare, il che, alla loro età è fondamentale».

Mentre parliamo, faccio notare a Lyudmila un cartellone in aula che mi avrebbe fatto rizzare i capelli in testa se non fossi praticamente pelato da quando ho 20 anni: ci sono sopra diversi tipe di mine antiuomo. «E’ la realtà in cui viviamo – sospira -. Martedì scorso sono venuti qui degli specialisti della polizia per parlare ai ragazzi: è una cosa che facciamo regolarmente. Purtroppo è necessaria, visto la guerra».

Il bisogno di un rifugio

I duemila alunni che vanno nelle fermate della metro non sono pochi. Alcune scuole poi avevano o hanno costruito dei rifugi dove fare lezione. Ma per la stragrande maggioranza dei ragazzi di Kharkiv tornare in classe è rimasto un miraggio. E per quel qualcuno è un problema più grande che per altri.

E’ il caso degli alunni della scuola Korolenko: un secolo e passa di storia, tutto dedicato all’istruzione di alunni non vedenti e ipovedenti. Per costruire gli edifici che ospitano questo istituto – nel cuore di Kharkiv – c’erano voluti decenni di lavori e donazioni. I russi per devastarlo con un missile ci hanno impiegato pochi secondi.

Quando vado a vedere con i miei occhi, nel cortile i due vicedirettori, Andrei Orlov e Alexander Marchenko, e alcuni ex studenti mi aspettano con un misto di curiosità per questo giornalista venuto dall’Italia e ansia di raccontare un’avventura, la loro, che ancora non ha avuto un lieto fine. Sergei che di cognome fa Poznaikov, 31 anni, fa gli onori di casa, perché è quello che parla inglese meglio di tutti: «Sono ipovedente e anch’io ho studiato qui da ragazzo. Da quando la scuola è stata colpita, sono tornato e sono venuto a vivere qui per lavorare, ogni giorno, per ricostruirla».

Di tre piani non se ne è salvato uno. L’esplosione, due anni fa, aveva fatto esplodere le finestre in mille coriandoli di vetro. Pazientemente, i prof, Sergei e gli altri volontari le hanno sostituite tutte, una per una. Ma i soffitti, no: quelli cascano ancora a pezzi. I muri, poi, sono rimasti pure loro sbucciati, dall’onda d’urto e anche lì, prima o poi bisognerà mettere mano. Certo è una questione di tempo. Ma anche – verrebbe da dire: soprattutto – di grivnie. O come diremmo noi: di euro. La scuola ne ha, in mille modi, già raccolti un po’; ma non bastano.

Sergei Poznaikov

Oggi come oggi, qui si fanno ancora zero lezioni in presenza. Anche se fosse tutto a posto, del resto, tornare in aula sarebbe troppo pericoloso. «Ma – mi spiega Sergei, che conosce il problema direttamente – online non è la stessa cosa. Per imparare l’alfabeto Braille, quindi a sentire le lettere con le mani, l’insegnante deve essere a fianco a te».

Una soluzione non solo ci sarebbe, c’è proprio già: anche questa scuola sta cercando di costruire due grandi aule sottoterra. «E’ un anno e mezzo che ci siamo dietro, ma mancano fondi per finire», mi dicono in coro Sergei, Alexander, Andrei&co, che però, non si arrendono: «Questo istituto è unico nel suo genere: qui hanno studiato ragazzi che nel tempo sono diventati dottori, avvocati, scienziati; abbiamo avuto perfino un ragazzo che ha vinto due medaglie, a Tokio, alle Paraolimpiadi. E’ importante che la scuola, che oggi va dalle elementari al liceo, riprenda a funzionare nel migliore dei modi possibili».

Ba-da-boom!

A segnalarmi il caso della scuola Korolenko è stata una persona molto conosciuta qui ad Kharkiv: si chiama Olena Fedorova, lavora all’università, e da quando è cominciata l’invasione russa, è impegnatissima a cercare fondi per risolvere i mille problemi della sua città. Subito dopo aver salutato prof e ragazzi, prendiamo un caffè assieme. Ragiono con lei e dico quello che penso: mandare i bambini a fare lezione in cantina non mi pare il massimo. «Per i ragazzi, soprattutto ragazzi ipovedenti e non vedenti, andare a scuola è fondamentale per farsi degli amici», mi risponde lei. Così diceva anche Lyudmila, la prof della metro. E in effetti hanno ragione. E quale sarebbe del resto l’alternativa, qui a Kharkiv?

Questa guerra – mediaticamente – è finita. L’ha vinta, come sempre, in questi ultimi decenni senza cuore, la noia. Ovviamente da noi, in Occidente. Ma in Ucraina, beh, è tutta un’altra storia. La guerra, qui, mica è mediatica. E’ vera. Solo la regione di Kharkiv e solo nei primi mesi del 2024 è stata colpita – dati ufficiali alla mano – da 150 bombardamenti, e ha subito complessivamente 2.500 attacchi. Non solo. La città si trova a una quarantina di chilometri dal confine russo e quindi i missili impiegano meno di un minuto ad arrivare sull’obiettivo. Morale: l’esplosione arriva ancora prima della sirena dell’allarme antiaereo.

E così, quasi ogni giorno, civili rimangono uccisi o feriti da una scheggia. Succede – e non una volta sola – anche quando io sono qui a scrivere questo pezzo. Da noi non fa più notizia come nei primi mesi di questa guerra sporchissima, perché alla fine gli schermi e il tempo consumano tutto; e anche l’orrore dei lenzuoli sporchi di sangue, dei corpi a brandelli, prima diventa routine e poi – quando spettatori e lettori sono stufi – semplicemente sparisce silenziosamente dai palinsesti e dalle pagine dei giornali.

Ma come si fa in una situazione così a riaprire le scuole e mettere a rischio la vita dei bambini? E’ chiaro che se Kharkiv vuole continuare a vivere il più possibile, deve sfruttare i luoghi sottoterra, perché sono i più sicuri. Oppure, l’unica altra strada è quella letteralmente di fregarsene e di accettare di potersi prendere un missile in testa da un momento all’altro. Ed è quello – per altro – che fa la maggior parte del milione e rotto di persone che sono rimaste a vivere qui e ogni giorno prende la metro, va al lavoro, e eccetera.

«Sì, è vero ci sono ogni giorno gran ba-da-boom che fanno paura. Ma il segreto è non pensarci. Toglierselo dalla testa», dice Ania Vasyukhno, un’altra amica di Olena che ci ha raggiunto per prendere il caffè assieme a noi. Il “ba-da-boom” di cui parla Ania è il suono delle esplosioni che si sentono all’improvviso – di giorno e di notte – nei quattro angoli della città. Sono i missili, i razzi, le bombe sganciate dagli aerei russi che impattano e deflagrano. Chiunque vive a Kharkiv ci deve in qualche modo fare l’abitudine, anche perché è uno stillicidio quasi quotidiano.

La schermata della app del governo che segnala gli allarmi aereo

Le chiedo se lei va mai in rifugio, se non usa la app ufficiale del governo che segnala gli allarmi: «La app degli allarmi? Ah, quella proprio no – e con le braccia ci fa una croce sopra – quella non la devi usare, è terribile, ti rovina la vita. Praticamente ogni cinque minuti, ti dice che dovresti fermarti e infilarti sottoterra. No, guarda, qui a Kharkiv, noi continuiamo ad andare tranquillamente in palestra, al ristorante, al bar. Sì, magari non è una vita normale, ma è vita. Andare altrove, all’estero? Ma lì ti senti sempre straniero. E poi, parlo per me, non avrei il mio lavoro, la mia famiglia», dice sorseggiando tranquillamente un cappuccino.

Olena ascolta. Lei non ha nulla della spavalderia di Ania e di tanti qui a Kharkiv, che tanto la vita deve andare avanti. No, lei lo dice chiaro: «Ho paura a stare qui, ma è la mia città: qui c’è mio figlio, la mia famiglia, i miei amici. Ma la notte, in particolare, quando sento le esplosioni è dura: a volte mi prende proprio lo sconforto; mi metto a pregare».

Un palco sotterraneo per il Teatro dell’Opera

Anche musica e danza hanno dovuto traslocare sottoterra, a Kharkiv. E lo hanno fatto fin da subito, fin dai primissimi giorni dell’invasione russa. «Un piccolo gruppo di artisti si esibiva nei corridoi della metropolitana. Al tempo, molti abitanti di Kharkiv dormivano lì per proteggersi dai bombardamenti e noi mettevamo in scena piccoli spettacoli tanto per tenere alto il morale. Parlo del marzo del 2022», mi spiega Igor Tuluzov, il direttore del Teatro dell’Opera, un parallepipedo di cemento e granito gigantesco, eredità della grottesca grandeur dell’Unione sovietica. Nei suoi 52mila metri quadrati, ci stavano e ci stanno due sale con due palchi e quasi 2.000 posti a sedere. Ma da 2 anni sono fermi, inutilizzati. «I missili che vengono lanciati da Belgorod, cioè appena di là dal confine, impiegano un attimo raggiungere la città. Non riusciremmo ad evacuare», dice Tuluzov. Per altro anche il teatro è stato già danneggiato, per fortuna solo di rimbalzo, dai bombardamenti.

Igor Tuluzov, nella sala principale del Teatro dell’Opera di Kharkiv

Ecco allora, anche qui, l’unica soluzione possibile: trasformare i sotterranei in una nuova sala per opera e balletto: «E l’abbiamo fatto – mi spiega ancora il direttore -. Il nuovo palco sotto terra funziona dal dicembre 2023. Non è stato facile, perché gli spazi non sono gli stessi: abbiamo dovuto come schiacciare, ridurre tutto – scenografie, coreografie – ad una dimensione più piccola. Ma facciamo una media di 15-20 spettacoli al mese, adesso».

La nuova sala underground del Teatro dell’Opera di Kharkiv

Perché era importante fare questo sforzo? Le ragioni, mi dice Tuluzov mentre chiacchieriamo nel suo studio, sono tante e diverse. Primo: gli abitanti della città vivono una situazione di grande stress emotivo da due anni; e hanno bisogno del sollievo che il teatro può dare. Secondo: gli attori e tutto lo staff del teatro hanno bisogno di fare pratica. Terzo: è un modo di dimostrare che la città è viva e che chi resta qui ha l’opportunità di fare tante cose.

Il Jazz-Reggae di Donetsk

Quella del direttore del Teatro dell’Opera non è solo bella retorica. E ci metto poco a toccarlo con mano. Nonostante tutto, Kharkiv ha molto da offrire a chi la abita. Ci sono mostre: come quella dedicata al famoso artista ucraino, Pavlo Makov, che è in scena allo Yarmillov Centre, una galleria d’arte, anche lei sotterranea. E pure la vita notturna della città è tutt’altro che morta. Certo, dopo che i russi hanno bombardato la centrale elettrica che riforniva la città, lo scorso marzo, ci sono black out a raffica che complicano tutto. E i lampioni spenti la notte costringono tutti a girare con le torce dei cellulari accese. Ma i locali – bar e ristoranti, per esempio – continuano in qualche modo a funzionare, anche se magari salta la corrente e si finisce, come è successo anche a me, a cenare con un piatto freddo e a lume di candela.

Fountain of Exhaustion – una delle opere di Pavlo Makov in mostra allo Yarmillov Centre

Per i concerti è più complicato: ci sono regole, divieti: gli assembramenti di persone sono pur sempre un rischio. Ma – mi dice Dmytro Liashko, un amico ucraino, che di professione fa il fixer per i giornalisti stranieri – c’è chi continua ad organizzarne. E’ il caso del Pintagon, un jazz club storico di Kharkiv.

Trovarlo non è semplice. Non c’è praticamente insegna: solo un campanello. Mi aprono la porta, scendo un paio di rampe di scale e mi trovo davanti un piccolo anfiteatro, arredato come un salottino, con tante poltrone di pelle verde. «Noi siamo fortunati, perché il nostro è un locale sotterraneo», mi spiega Dmitro Kutovyi, uno dei gestori. «All’inizio abbiamo fermato l’attività e ospitato in questa sala degli sfollati. Ma già dal dicembre 2022 abbiamo ripreso a funzionare regolarmente».

Anche la sera in cui vado io, c’è una band che si esibisce: sono gli Zarisovka, un gruppo Reggae di Donetsk. «Anzi, per la precisione Jazz-Reggae», mi corregge Yan Vedaman, il sassofonista. «E’ che lui, Yan, fa musica jazz; mentre io amo il reggae, perché è solare, perché ti costringe a ballare. Che ne so? Forse in un’altra vita sono nato in Giamaica e avevo sangue caraibico», mi dice Artem Voitsekhovskyi, il cantante. Fatto sta che gli Zarisovka, che adesso sono di stanza a Kharkiv, in Ucraina hanno un loro popolarità. Non sono pop-star, ovvio. «Ma sì nel circuito della musica indipendente siamo abbastanza conosciuti. Negli ultimi due anni siamo riusciti in tutto a fare una cinquantina di concerti in giro per il paese, e così siamo anche riusciti a raccogliere soldi per il nostro esercito», mi spiegano in coro Artem e Yan, mentre mordicchiano un pezzo di pizza e tracannano, alle sei del pomeriggio, bicchierini su bicchierini di whisky irlandese («Serviti anche tu. Se insieme ci bevi un po’ di latte, vedrai che domani non hai mal di testa (in effetti funziona, ndr)») prima del loro concerto.

Gli chiedo se non si sentano però un po’ come costretti a dover per forza esibirsi in locali sottoterra, manco fossero topi. «Non ce ne frega un cazzo del posto – rispondono secchi Artem e Yan -. La musica è necessaria: è un po’ una medicina dell’anima, quando le anime sono a pezzi, come in questa guerra. E noi vogliamo solo esibirci e far capire alla gente che Kharkiv è viva, che non è solo razzi e bombe».

E anche a Saltivka è tornata la vita

E Kharkiv – nonostante gli attacchi continui – viva lo è. Eccome. Perfino Saltivka, il quartiere che i russi nei primi mesi dell’invasione avevano trasformato in una città fantasma a furia di bombardamenti, è risorto come Lazzaro. Ci vado – come ultima tappa per questo mio reportage – in compagnia di un amico ucraino, conosciuto in treno, quando sono arrivato da Kiev.

Si chiama Dima («e il cognome non lo mettere per favore»). Come tanti, nei primi mesi di guerra, era scappato ed era andato a vivere altrove, a Kiev, appunto. «Ma ora basta. Ora torniamo a vivere definitivamente qui. Nella capitale, faccio solo passare il tempo: l’unica cosa buona che abbiamo fatto io e mia moglie, a Kiev, è stata la nostra bambina, che è nata là. Qui invece ci sentiamo vivi», mi dice mentre scivoliamo lenti nel traffico in direzione Nord.

A Nord di Kharkiv, appunto, sta Saltivka. Il primo missile ci è arrivato sopra il 24 febbraio 2022. Poi è stata una vera e propria pioggia di fuoco. «E’ un’area residenziale – mi spiega Dima -. Non ci sono fabbriche o uffici; solo case e negozi. Perché i Russi l’hanno colpita così tante volte? Volevano che la gente scappasse per prenderne il controllo. Sono arrivati più o meno a due chilometri da qui prima di essere respinti indietro, oltre confine».

I palazzi sono tutti uguali: blocchi di cemento alti non meno di 10 piani, disposti in lunghe file ordinate. Ma oggi – sempre dati ufficiali alla mano – qualcosa come 4.000 di questi palazzi sono sventrati, bruciati. Molte finestre, i vetri in miliardi di pezzi, rimangono ancora oggi come buchi neri nelle facciate. Anzi, ancora oggi, alcuni palazzi le facciate non le hanno proprio più ed è possibile vedere i mobili, come in gigantesche case della Barbie.

«La prima volta che io sono venuto qui – mi racconta Dima – era un anno fa. Per le strade non c’era una macchina, nessuno in giro. Solo macerie». Mi indica un giardinetto: «Mi ricordo che c’erano vestiti, giocattoli, perfino sedie che pendevano dai rami. Le esplosioni li avevano fatti volare fuori dalle case».

Mentre camminiamo per il dedalo di stradine che attraversa il quartiere, vedo una testa spuntare da un palazzo che pare stare in piedi per miracolo. E’ un uomo; fuma tranquillo appoggiato al davanzale di una finestra senza vetro e telaio. Prendo la macchina per scattargli una foto. Lui sorride, per nulla imbarazzato e fa il segno della vittoria.

Due donne ci chiamano. «E’ un giornalista? Digli che vogliamo parlare con lui», dicono a Dima. Si presentano: Natalia Naboichenko, Liubov Dronova, pensionate. Vivono qui dalla bellezza di 33 anni. O meglio, ci vivevano: «Il nostro palazzo, quello che hai di fronte è stato centrato in pieno, due anni fa. É andato avanti a bruciare per tre giorni, perché era troppo pericoloso per i pompieri venire qui. Una donna è morta a causa dell’esplosione».

Ora Natalia, Liubov e gli altri vicini sono costretti a vivere altrove. Ma vorrebbero ricostruire. «Di andare in un’altra città – mi dice chiaro e tondo Liubov – o addirittura fuori dall’Ucraina, non se ne parla. Questa è casa nostra, desideriamo tornare qui». Il problema, come sempre, come dappertutto nel mondo, sono i soldi. «Abbiamo chiesto aiuto all’amministrazione della città, ma per ora non abbiamo ricevuto nessuna risposta concreto». Natalia, Liubov e gli altri vicini, però, continuano a darsi da fare: ogni fine settimana si trovano qui per dare un’occhiata a quelle che una volta erano le loro case e per mantenere pulito il piccolo giardinetto in cui le ho incontrate. Insomma, non mollano.

Salutiamo e riprendiamo il nostro giro. Una mamma gioca tranquilla con il figlioletto in un piccolo parco giochi. Tre signore, all’ingresso di un palazzo, chiacchierano del più e del meno. Tra tante facciate ancora annerite dalle fiamme, è davvero tornata la vita. Del resto non tutti sono stati sfortunati, come Liubov e la sua vicina Natalia.

«Io sono tornata a vivere qui già sei mesi fa, con mio marito e mia figlia», mi spiega Ira Yesenia, dalla finestra di casa sua. «Il giorno del primo attacco – ricorda – ero qui. Prima un elicottero o un drone c’è passato sopra la testa, illuminando tutte le strade con un riflettore. Poi sono cominciati i missili. E noi, in qualche modo, siamo scappati».

L’appartamento di Ira, riparato da una collinetta, aveva giusto qualche finestra rotta; è già tutto sistemato. «Pensa che io e mio marito abbiamo comprato questo appartamento, dopo aver risparmiato per 20 anni, giusto un mese prima dell’inizio dell’invasione. Ora, ci darebbero due soldi, se provassimo a venderlo», mi spiega affacciata dalla finestra di casa. Scrolla le spalle, come a dire: ormai è fatta. Riprende fiato e racconto, ripartendo dalla notte maledetta del primo attacco. «Per un po’ abbiamo dormito in metropolitana, ma faceva troppo freddo per stare lì. Allora abbiamo preso una appartamento. Ma appena abbiamo potuto siamo rientrati, anche perché avevamo paura che ci rubassero in casa».

Chiedo al mio amico che mi fa da interprete se ho capito bene: rubato? Sì, mi fa lui, rubato, qui è successo in diversi posti.

Già.

Rubato ai vivi, che erano andati via; e ai morti, che tanto se ne erano andati per sempre.

Rimango stupito. E non dovrei. Perché l’ho già visto altre volte: la guerra, come tutte le esperienze estreme, è proprio così: fa un po’ da lente di ingrandimento: allarga, amplifica tutto: pregi, difetti; debolezze e punti di forza; l’amicizia e l’amore, le volte che ci sono veramente; e questo vale anche per gli appetiti, quelli sani e quelli meno. Non è una prova facile. E lo spettacolo – lo spettacolo che diamo tutti, eh, compresi noi giornalisti – non è sempre dei migliori. Che Dio ci perdoni.

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