Russia

Dire l’essenziale in tempi duri. Svetlana Aleksievič

5 Settembre 2022

Una battaglia persa (Adelphi) è il testo del discorso che Svetlana Aleksievič tiene il 10 dicembre 2015 al momento di ricevere il premio Nobel per la letteratura.

Di quel testo, corto, stringente, ma essenziale, vorrei considerare tre elementi che è bene tenersi stretti in questi tempi.

Il primo è nella affermazione di chiusura:

«Ho tre case: la mia terra bielorussa, che è la patria di mio padre e dove ho vissuto tutta la mia vita; l’Ucraina, che è la patria di mia madre e dove sono nata; e la grande cultura russa, senza la quale non riesco a immaginarmi. Ho care tutte e tre. Ma è difficile parlare d’amore, di questi tempi.»

Forse nel 2015 era sorprendente, oggi non necessita di essere spiegato. Semplicemente è nelle cose.

Il secondo riguarda la funzione del narratore.

Ricorda Svetlana Aleksievič che Flaubert diceva di sé di essere un «uomo-penna». Di se stessa preferisce la funzione di «donna orecchio».

Quando cammino per strada e afferro parole, frasi, esclamazioni, penso che c’è tutta una parte della vita umana, quella del parlato, che non riusciamo a portare nella letteratura”. Quella parte non riguarda le frasi eroiche o quelle che metteremo sui monumenti, riguarda la vita concreta delle persone.

Il terzo riguarda di chi si raccontano le storie, o di chi raccoglie le parole.

Abbiamo per molti anni raccolto le parole degli uomini, poi a un certo punto a partire dagli anni ’70 nel momento in cui il sistema sovietico andava “incartandosi”, le parole dei reietti, degli uomini e delle donne del Gulag, hanno avuto uno spazio, ma presto quelle parole sono state mangiate da chi ha trasformato quella rivendicazione di controstoria in una ideologia nazionalista dell’identità La fine di quella parabola è oggi la centralità di quella parte di mondo dei samisdat tra anni ’80 e primi anni ’90 che chiedeva il ripristino della “santa madre Russia” mettendo insieme nazionalbolscevismo e “Pamjat”, Dugin e Limonov

Si potrebbe dire che è la Russia di oggi. Non è l’effetto di un improvviso deragliamento della storia, ma la determinazione a perseguire un obiettivo a dimostrazione che i totalitarismi, non solo creano, ma anche sono la conseguenza di una mentalità totalitaria, di una domanda dal basso che invoca l’«uomo forte».

Così nel 2015 con parole che oggi a noi sembrano la rappresentazione piatta della realtà, Svetlana Aleksievic ricordava a se stessa, e a chi era disposto ad ascoltare che la realtà era molto complicata e dura.

Ma quella battaglia, rappresentata in quel discorso di meno di 30 minuti non era un’improvvisazione. Veniva da lontano

“Gli uccelli hanno dimenticato in fretta la guerra…” scrive Svetlana Aleksievic in La guerra non ha un volto di donna  (Bompiani).

In quel testo in cui le voci protagoniste sono le donne, la guerra è una condizione che non assume la visione eroica, come ci ha ricordato recentemente Benedetta Tobagi.

L’operazione voleva esprimere intenzionalmente la critica radicale al modello celebrativo della retorica della “Grande guerra patriottica”. Voleva dire: denuncia della rappresentazione istituzionale del conflitto, prettamente “maschile” e denuncia di una descrizione della guerra che rimane maschile.

Una condizione che non è diversa da come in Italia abbiamo impiegato molto tempo ad affrontare lo stesso tipo di problema, ma che nel caso russo-sovietico, proprio in relazione all’emancipazione come fattore retorico dell’ideologia di cui si dice di essere i depositari e testimoni, acquista anche altri significati dirompenti.

Il primo è la critica distruttiva alla dimensione epica del conflitto. Il secondo è la critica alla componente di nazionalismo ideologico che si accompagna a alla celebrazione del 9 maggio: ancora oggi9 l’unico protagonista della sfilata è il potenziale militare e il volto maschio del guerriero. Di liberazione, e soprattutto di libertà difficile trovare traccia nella rappresentazione scenografica che avviene sulla Piazza Rossa in una dimensione teatrante che sostanzialmente invariata dal 1946.

La guerra non ha un volto di donna dunque solo apparentemente racconta una storia sconosciuta o mai raccontata. Ciò che contesta è la il mito della celebrazione della vittoria di tutti. Proprio perché «di tutti» non è.

Per cui apparentemente abbassando i toni, si trattava in realtà di affermare la complicanza del reale e l’impossibilità di costruire una versione imperiale della storia. Anzi demolire quella versione imperiale non voleva dire andare a carcare una versione verticalmente opposta.

Sarebbe stato sufficiente dimostrare che la storia per raccontarla per davvero si tratta di renderla contorta, contraddittoria, una vicenda in cui le persone si «impigliano» e in quel loro muoversi affannoso per trovare una ragione, scoprire che il lento processo di emancipazione verso il futuro è sempre un percorso in cui si mira a raccontare l’essenziale e a togliere tutte le incrostazioni ideologiche che il tempo accumula sulle persone e sulle cose.

Così già tempo fa. Ora di più.

 

 

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