Germania

La strada giusta per il futuro dell’Eurozona

19 Dicembre 2017

A inizio dicembre la Commissione Europea ha presentato un pacchetto di proposte per aumentare l’integrazione nell’Eurozona che sono state discusse all’Euro-summit della settimana scorsa. Tra le proposte principali vi sono la trasposizione del Fiscal Compact nella legislazione UE, un super-ministro dell’economia, una funzione di stabilizzazione per contrastare forti shock asimmetrici, una barriera (backstop) contro le crisi bancarie e un supporto alle riforme strutturali.

Si propone anche di trasporre il Meccanismo Europeo di Stabilità (oggi accordo inter-governativo) nelle leggi Europee col nuovo nome di Fondo Monetario Europeo (FME) incaricato del salvataggio degli Stati membri attraverso prestiti da erogare in cambio di rigide riforme domestiche. Il sistema di governance non cambierebbe molto, anche se non è ancora chiaro se verrà abolito il diritto di veto che attualmente solo 3 Paesi (Germania, Francia e Italia) possono usare anche nell’ambito della procedura decisionale di emergenza per bloccare i programmi di assistenza a un Paese in difficoltà. È un aspetto fondamentale, specie perché l’effetto diluitivo del prevedibile allargamento del FME a tutti i Paesi dell’Unione Bancaria potrebbe far perdere il diritto di veto all’Italia, e renderlo una prerogativa esclusiva della Francia e della Germania che se ne servono strategicamente per avvantaggiarsi, ad esempio negoziando il proprio consenso con benefici per il loro sistema bancario e industriale.

La principale novità, comunque, è la proposta di introdurre una funzione di stabilizzazione con lo scopo di ridurre il rischio che uno Stato finisca con l’avere bisogno di chiedere aiuto al Fondo Monetario Europeo. Anche se – per incontrare il favore della coalizione a guida tedesca – il pacchetto Juncker ripete che non ci saranno trasferimenti permanenti di risorse tra Stati membri, sul tema si può presagire un acceso dibattito date le posizioni opposte del fronte del “Sud-Europa” (Italia, Spagna, Grecia, Portogallo e forse anche la Francia) rispetto a quello del “Nord-Europa” (formato da Germania, Austria, Finlandia e Olanda). Al momento il clima appare attendista, ma vedremo che dirà la Germania quando uscirà dall’impasse della formazione del nuovo governo e se tornerà alla carica con le sue richieste di applicare sistematicamente il burden sharing in caso di crisi del debito di un Paese membro riepilogate nel non-paper di Schäuble di inizio ottobre.

Come per le analoghe disposizioni in materia di crisi bancarie, la Germania vuole che gli investitori privati prendano parte alle eventuali perdite sui titoli di Stato e chiede di adottare procedure standardizzate per la gestione delle crisi di debito sovrano attraverso meccanismi automatici di allungamento delle scadenze (reprofiling) e, se non dovesse bastare, di ristrutturazioni del debito che possano essere approvate da maggioranze più facili da raggiungere e implementate secondo le modalità tecniche decise dall’Euro-burocrazia. Appropriate clausole (c.d. Creditor Participation Clauses) dovrebbero governare questi meccanismi e, al contempo, impedire allo Stato emittente di ri-denominare i suoi Govies in una nuova valuta nazionale nell’ipotesi di abbandono dell’euro.

Purtroppo ciò che la Germania chiama burden sharing (“condivisione degli oneri”) è in realtà un metodo per legalizzare la segregazione dei rischi all’interno dei singoli Stati. Il successo del progetto di integrazione Europea richiede invece una vera condivisione dei rischi (risk sharing) e un’istituzione sovra-nazionale con compiti di stabilizzazione preventiva e anti-ciclica e con poteri di trasferimento di risorse finanziarie tra le varie regioni per il perseguimento di tali compiti, piuttosto che limitarsi a interventi straordinari last minute quando le crisi sono già conclamate.

La riforma del Meccanismo Europeo di Stabilità potrebbe essere l’occasione giusta per perseguire questi obiettivi. Oggi il Fondo Salva-Stati (altro nome del MES) presta soldi ai Paesi in difficoltà che si impegnano a restituirli a scadenza e ad attuare riforme austere per ripristinare la loro capacità di cassa. Ma questo schema potrebbe essere rivisto passando a uno in cui il MES diventi garante del debito pubblico di tutti i Paesi membri secondo una logica assicurativa: gli Stati rischiosi come l’Italia, la Spagna o il Portogallo versano nuovi contributi in contanti al capitale del Fondo Salva-Stati che hanno il valore di premi assicurativi prezzati a mercato (mark-to-market) e in cambio ottengono di condividere il loro rischio sovrano con gli Stati più sicuri come la Germania o la Francia.

Specifiche clausole di condivisione dei rischi incorporate nei Govies da rifinanziare ogni anno potrebbero sancire la responsabilità solidale di tutti i partecipanti all’Eurozona. Nell’arco di un decennio il debito pubblico di tutto il blocco Euro sarebbe integralmente mutualizzato e i Paesi membri avrebbero la stessa curva per scadenza dei tassi di interesse, vale a dire lo stesso costo del denaro, proprio come dovrebbe essere all’interno di un’area valutaria comune.

Il nuovo MES sarebbe infatti un “equalizzatore” dei rendimenti sovereign: se i mercati credono che presto i debiti pubblici di tutti gli Stati saranno mutualizzati, gli investitori cercheranno di trarne profitto comprando titoli di Stato ad alto rendimento e vendendo costosi titoli di Stato a basso rendimento, accelerando così il processo di convergenza. A sua volta, questo processo permetterà ai Paesi rischiosi di pagare premi sempre più bassi sui titoli mutualizzati di anno in anno, rendendo possibile il graduale azzeramento degli spread.

Al più – laddove inizialmente il mercato non dovesse credere alla forza di questo nuovo indirizzo di policy e si comportasse differentemente da quanto avvenuto prima della partenza dell’Euro –  il rischio percepito potrebbe aumentare sui Govies in circolazione (i.e. non rifinanziati) in quanto privi delle clausole di condivisione dei rischi e potenzialmente soggetti ad un rischio di default selettivo. Anche questo aspetto – comunque temporaneo in quanto col tempo tutto il debito sarebbe assoggettato alle clausole di risk-sharing – non dovrebbe avere impatti problematici: per il Tesoro (indebitato prevalentemente a tasso fisso) la spesa per interessi sui BTP outstanding non cambierebbe, mentre per gli investitori questi titoli diventerebbero obbligazioni da detenere sino a scadenza così da non subire perdite in conto capitale.

Secondo le mie stime, i costi della copertura assicurativa sui titoli assistiti dalle clausole di condivisione dei rischi sarebbero inizialmente crescenti perché una porzione sempre più alta del debito pubblico includerebbe tali clausole; successivamente, però, la convergenza dei rendimenti finirebbe per avere la meglio. Ad esempio, nel caso dell’Italia, a partire dal 3° anno i risparmi sulla spesa per interessi sul debito supererebbero i costi della garanzia del MES, portando a un notevole beneficio netto (oltre €100 miliardi complessivi in 10 anni).

Ovviamente una completa inversione delle aspettative dei mercati è cruciale per il successo della riforma che propongo. È qui che la classe politica sarebbe chiamata a fare la differenza come fu nella seconda metà degli anni ’90 quando il fermo impegno dei governi coinvolti nel progetto dell’euro spinse gli investitori a scommettere sulla Germanizzazione dei tassi di interesse. Gli agenti finanziari misero in atto massicci convergence trades in cui vendevano i costosi Bund e compravano i più economici BTP traendo profitto dalla convergenza. E ancora, verso la metà del 2012, non appena Draghi annunciò il suo “whatever it takes”, i convergence trades rispuntarono immediatamente.

Il problema politico, a sua volta, riguarda sostanzialmente la posizione della Germania, avversa come noto alla condivisione dei rischi. Ma per la prima volta negli ultimi tempi si scorge qualche segnale di cambiamento da parte degli interlocutori europei rispetto all’usuale ritrosia e mancanza di assertività. Lo si vede nelle (pur timide) proposte di Juncker e, ancor di più, nelle posizioni dei paesi periferici che proprio in questi giorni stanno facendo fronte comune per promuovere il position paper del governo italiano in cui si evidenzia l’importanza della condivisione dei rischi e si chiede un «un meccanismo comune di stabilizzazione per smussare le fluttuazioni dovute al ciclo economico» sottolineando come questo «assicurerebbe che i paesi soggetti a vincoli fiscali non siano costretti a tagliare gli stabilizzatori automatici e/o gli investimenti durante severe crisi» e anche il beneficio indiretto che i Paesi core trarrebbero nel medio-lungo termine per effetto della maggiore stabilità del contesto macroeconomico.

I punti di comunanza con la mia proposta di riforma del MES sono evidenti, non solo per le considerazioni di opportunità sul piano economico-politico ma anche sul tipo di soluzione auspicata, vale a dire la condivisione dei rischi da conseguire tramite un «common insurance asset».

Vi è tuttavia una profonda differenza sul piano tecnico. Secondo il position paper del governo italiano tutti i trasferimenti ricevuti per effetto del risk-sharing devono essere ripagati nel tempo operando perciò concretamente come un «interest free loan». Questo elemento – unitamente al fatto che il meccanismo di stabilizzazione sarebbe attivato solo in risposta a fluttuazioni avverse del ciclo e che nel lungo periodo tali fluttuazioni sono uniformemente distribuite tra i paesi – implicherebbe che non ci sarebbero paesi che sono beneficiari netti o contributori netti per importi significativi nel lungo termine.

Di contro, la mia proposta risulta più concreta per la Germania e gli altri paesi core dal momento che prevede che i paesi rischiosi debbano pagare per beneficiare della mutualizzazione del loro rischio sovrano e che tali pagamenti siano definiti a condizioni di mercato. Né la recente proposta del nostro governo né le più classiche proposte di Eurobond prevedono qualcosa del genere.

La seguente tabella mostra l’impatto atteso della mia proposta in termini di variazione della spesa per interessi per alcuni paesi della zona euro (al netto dei contributi in denaro dei Paesi rischiosi al capitale del MES).

Germania e Francia dovrebbero sostenere pagamenti di interessi più elevati, mentre Italia e Spagna trarrebbero vantaggi significativi. È coerente con il prevedibile impatto redistributivo delle risorse finanziarie dal centro alla periferia dell’Eurozona dovuto al risk sharing, vale a dire nella direzione opposta rispetto agli spostamenti di risorse finanziarie verso la Germania e gli altri Paesi core verificatisi dall’inizio della crisi sotto la spinta dei numerosi interventi di segregazione dei rischi.

In cambio dell’iniziale deterioramento della loro esposizione al rischio, i Paesi core potrebbero fare affidamento su un’unione monetaria più resiliente e sul forte impegno della periferia a favore di comportamenti fiscali responsabili. Infatti, l’azzardo morale sulle questioni fiscali sarebbe scoraggiato da sanzioni dei mercati sotto forma di premi assicurativi più elevati da versare al Meccanismo di Stabilità e di rallentamenti, se non addirittura arresti, della convergenza dei premi al rischio sui titoli emessi dai diversi Stati.

Allo scopo di promuovere politiche di bilancio prudenti e virtuose da parte dei Paesi periferici, le clausole di condivisione dei rischi dovrebbero disabilitare la regola che attualmente permette al debito emesso per finanziare il MES di non impattare sulle finanze pubbliche dei governi; inoltre, sui Govies che vengono riemessi ogni anno queste clausole dovrebbero vietare la possibilità di ridenominazione in valute diverse dall’euro. Se, infatti, uno Stato desidera beneficiare della mutualizzazione dei rischi, deve rinunciare alla possibilità di comportarsi in modo non cooperativo.

La riforma proposta permetterebbe altresì di raddrizzare alcune delle attuali criticità del Meccanismo di Stabilità. Oggi, l’89% del capitale sottoscritto è rappresentato da azioni richiamabili (€625 miliardi), mentre il capitale versato è ben al di sotto della potenza di fuoco massima del Meccanismo (solo 80 miliardi contro i 500 miliardi dell’importo massimo erogabile come sostegno finanziario a un Paese beneficiario). Al contrario, nel nuovo assetto, il Meccanismo potrebbe fare affidamento sui contributi annui in denaro versati dai Paesi rischiosi fino a un importo totale di altri 80-100 miliardi. Più del doppio dell’attuale livello di capitale liberato. Allo stesso tempo, i nuovi doveri di contribuzione sarebbero esclusivamente a carico dei Paesi rischiosi (essendo questi acquirenti netti di protezione nell’ambito dell’accordo di condivisione dei rischi), mentre quelli poco rischiosi sarebbero esenti da contributi aggiuntivi.

Si potrebbe argomentare che la Germania dovrebbe incassare i contributi aggiuntivi pagati dai Paesi rischiosi perché nei fatti venderebbe protezione; tuttavia, un simile argomento non terrebbe conto dell’importanza di fare affidamento su un arbitro super partes come il MES per dare credibilità all’impegno di condivisione dei rischi. Per motivi simili, anche la procedura di voto di emergenza dovrebbe essere rivista secondo una prospettiva più democratica rimuovendo il diritto di veto detenuto da Germania, Francia e Italia e abbassando la maggioranza richiesta per concordare su un programma di aiuti.

Senza dubbio queste modifiche esporrebbero maggiormente i Paesi core al rischio di default della periferia, ma è importante chiarire che il fine ultimo della mia proposta di riforma è quello di condividere i rischi per aumentare sensibilmente la distanza dal default di tutti i Paesi dell’Eurozona e rendere davvero il MES un garante della stabilità per la nostra area valutaria.

La Figura seguente, tratta dall’ultimo Economic Outlook dell’OCSE, illustra come oggi il legame tra i rendimenti a lungo termine sui Govies e il rapporto debito/PIL sia molto più forte rispetto a prima della crisi quando i mercati finanziari assumevano la condivisione dei rischi…

… e supporta quindi la mia aspettativa che la transizione a un’Eurozona autenticamente a rischi condivisi consentirebbe una generalizzata riduzione dei rapporti debito/PIL, un conseguente miglioramento della sostenibilità del debito per ogni Stato e la convergenza dei rendimenti. Persino i Paesi più indebitati come l’Italia e il Portogallo scenderebbero sotto il 100% alla fine del decimo anno, mentre l’area euro nel suo complesso si avvicinerebbe alla soglia del 60% prevista dal trattato di Maastricht.

L’ultimo pilastro su cui la riforma del MES dovrebbe concentrarsi è il potenziamento degli investimenti pubblici nelle economie più deboli dell’Eurozona, al fine di rispettare i principi di crescita e sviluppo condivisi sanciti dai trattati Europei. A tal fine, la mia proposta prevede un legame sinergico tra il nuovo Meccanismo di Stabilità e il Fiscal Compact. I due accordi intergovernativi sono già collegati in quanto l’accesso ai programmi di assistenza del MES è condizionato alla prioritaria adesione al Fiscal Compact. Pur preservando questa caratteristica, il nuovo assetto potrebbe favorire le opportunità di investimento escludendo dal calcolo del saldo strutturale (rilevante per il Fiscal Compact) un ammontare massimo di spesa pubblica destinata al finanziamento di progetti redditizi supportati dal MES.

Nel dettaglio, il MES potrebbe utilizzare la sua capacità di leva finanziaria per raccogliere sul mercato i fondi necessari alla realizzazione di investimenti situati nella periferia dell’area euro. Attualmente il Meccanismo opera con una leva moderata (il rapporto tra passività e capitale versato è circa 1) per concedere i suoi programmi di assistenza a Paesi in estrema difficoltà. Sotto il nuovo mandato, invece, la liquidità raccolta dal MES potrebbe essere re-indirizzata a investimenti produttivi al fine di fornire ai Paesi più fragili anticorpi più potenti per immunizzarsi da nuovi shock e riposizionarsi su un percorso di crescita sostenuta e duratura. L’evidenza empirica offre numerosi esempi degli alti moltiplicatori fiscali associati agli investimenti pubblici, specialmente quelli localizzati nelle aree meno sviluppate.

In aggiunta, la leva finanziaria rappresenta un riferimento molto utile per quantificare la “massima flessibilità”, cioè la massima spesa pubblica ammissibile per investimenti che può essere scorporata dal calcolo del saldo strutturale. Infatti, considerato che oggi la leva è unitaria e che i nuovi contributi in contanti dei Paesi rischiosi aumenterebbero la dotazione di capitale del MES, quest’ultimo potrebbe supportare investimenti pubblici raccogliendo fondi sul mercato per un importo non superiore all’incremento di capitale (circa 100 miliardi su 10 anni) senza aumentare il proprio leverage e la propria rischiosità.

Peraltro, un simile dispositivo renderebbe il nuovo contesto operativo del MES più desiderabile per i Paesi periferici chiamati a versare extra-pagamenti al capitale del Fondo Salva-Stati, mentre le preoccupazioni dei Paesi core sul rischio di sprechi e cattivi investimenti potrebbero essere superate assegnando le competenze di selezione e monitoraggio dei progetti a un Comitato Europeo, come ad esempio lo European Fiscal Board che attualmente espleta solo funzioni consultive.

La riforma proposta rappresenta un’ottima opportunità per rilanciare il progetto europeo e aumentare la resilienza e la competitività dell’Eurozona sullo scacchiere globale dove oggi sono indispensabili massicci investimenti infrastrutturali. Siamo 19 paesi diversi, ma si suppone (e così dovrebbe essere) che ci comportiamo come un’area economica e finanziaria unitaria. Ebbene: condividere  i rischi rappresenta il primo passo per rimuovere le nostre diversità. Finora, dapprima attraverso un’abile strategia di vendor financing e poi facendo deleveraging sulle proprie esposizioni verso la periferia, la Germania ha aumentato la propria produttività e costretto i paesi periferici a svalutare il lavoro per sopravvivere (la moneta unica elimina infatti i riallineamenti degli squilibri basati sugli aggiustamenti dei tassi di cambio). È tempo che la Germania e i suoi vicini più prossimi recuperino parte del rischio che hanno esportato sinora e smettano di sostenere che l’indisciplina fiscale della periferia è l’unica causa della sua perdurante divergenza dal “centro”.

 

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