Germania
La condanna di una ginecologa riapre in Germania il dibattito sull’aborto
In Germania si è riaperto il dibattito sull’aborto in seguito alla condanna in primo grado della ginecologa 61enne Kristina Hänel pronunciata venerdì dal Tribunale di Gieβen in Assia. La dottoressa è stata condannata per avere pubblicato sul proprio sito nell’aprile 2015 un documento pdf sulle possibilità di interruzione della gravidanza, sia farmacologiche che chirurgiche, e sulle diverse controindicazioni legate ai diversi metodi, indicando al contempo nell’elenco dei servizi sanitari che offriva anche gli interventi di aborto. Tanto è bastato perché il gruppo antiabortista di ispirazione cristiana “Nie wieder! e. V.” (Mai più!) di Weinheim ne chiedesse l’incriminazione ai sensi dell’articolo 219a del codice penale tedesco che sanziona le indicazioni pubbliche sull’interruzione di gravidanza laddove esse siano collegate ad un proprio beneficio finanziario.
Di regola i pubblici ministeri, ritenendo che un sanitario non si renda conto di essere perseguibile per il solo fatto di includere su internet nell’elenco delle proprie prestazioni anche l’interruzione di gravidanza, escludono il dolo e non chiedono il rinvio a giudizio. Kristina Hänel era già stata denunciata in passato altre due volte e la procura aveva archiviato i fascicoli. Questa volta invece, essendo la terza, la presunzione di ignoranza non era più ipotizzabile ed il procuratore ne ha richiesto l’incriminazione. La ginecologa in effetti aveva cercato di modificare la propria pagina per cercare di renderla inattaccabile dalla legge e non l’aveva eliminata subito dopo la prima denuncia, anche se dopo un po’ ha continuato ad offrire la consulenza solo a richiesta inviando la documentazione per mail.
La Corte ha affermato nel dispositivo della sentenza -riportano i media tedeschi- che “il legislatore non ha voluto che dell’aborto si discuta pubblicamente come di una pratica normale” ed ha seguito perciò le indicazioni di pena avanzate dalla procura. La dottoressa è stata condannata al versamento di una multa di 150 euro per 40 giorni per un totale di 6000 euro. La norma avrebbe permesso una condanna fino a 2 anni. La dottoressa Hänel, sia in prima persona che attraverso il suo legale, la professoressa Monika Frommel, ha dichiarato che intende ricorrere, se sarà necessario fino alla corte costituzionale, per ottenere la revisione del suo caso e l’abrogazione della norma. Non si dichiara una fautrice dell’aborto e nella sua difesa ha sostenuto che la propria non era una pubblicità istigatrice, ma rivendica il diritto di informare le pazienti perché in alcuni casi l’interruzione di gravidanza è l’unica soluzione ipotizzabile per risolvere un conflitto, riferisce la Gießener Allgemeinen.
In effetti i giudici di Karlsruhe hanno già indicato in passato nel 1975 e nel 1993 che se la legge apre la possibilità ai medici di disporre l’aborto dev’essere loro possibile farlo senza conseguenze. Da allora la maggior parte delle denunce, come già indicato, vengono infatti archiviate. Per quanto scarsi però ci sono pur sempre casi, come quello in discorso, in cui i pubblici ministeri rilevano l’onere di avviare il procedimento penale. L’avvocatessa Ulrike Lembke ha enunciato alla Zeit ad esempio il precedente di una ginecologa che appariva alla voce “interruzioni di gravidanze” nelle Pagine Gialle che è stata condannata, ed oggi figura come pregiudicata, anche se non aveva richiesto né autorizzato l’inserzione sotto quella rubrica nell’elenco telefonico.
Gli attivisti che hanno promosso il giudizio contro la dottoressa Hänel, paragonano l’aborto alle pratiche naziste con slogan -come quello riportato dalla Süddeutsche Zeitung– “Damals KZs, heute OPs” (un tempo i campi di concentramento, oggi le sale operatorie). In realtà la legge tedesca che arroga allo Stato di decidere al posto delle stesse donne, nella sua formulazione originale, risale proprio al 1933: i nazisti l’avevano introdotta tra l’altro per criminalizzare i medici ebrei. La legge è poi stata rimaneggiata nel 1943 per darle un taglio ancora più eugenetico. Anche se ha subito poi emendamenti nel dopoguerra, non è però mai stata abolita. Contrariamente a quanto si pensa l’aborto in Germania è formalmente vietato. Un compromesso è stato previsto dalla legge per prevenire e risolvere conflitti derivanti da gravidanze del 1992, e nella sua modifica dell’agosto 1995, restringendo l’applicabilità della pena ma non cancellando il reato: la donna va esente da sanzioni se l’interruzione di gravidanza avviene prima della 12ma settimana ed almeno tre giorni prima dell’intervento chiede assistenza e si prende un intervallo di riflessione (in Italia è invece richiesta una pausa di almeno sette giorni e viene coinvolto anche il padre). Solo in casi eccezionali nei quali c’è un rischio per la vita della gestante, od il bimbo avrebbe gravi malformazioni, l’intervento interruttivo può essere svolto senza sanzioni anche dopo il termine di 12 settimane; anzi se c’è il rischio di un danno grave alla salute o la vita stessa della donna non è ammessa, come in Italia, l’obiezione di coscienza del medico il quale deve intervenire. La consulenza non dev’essere prestata dallo stesso medico che esegue l’intervento; di regola, oltre che da altri sanitari, sono certificati ad offrirla enti religiosi come la Croce Rossa o la Diaconia. Essa, con una formulazione invero contraddittoria, deve incoraggiare la donna a proseguire la gravidanza, ma al contempo essere rivolta ad un risultato aperto e non sotteso ad ammonirla o costringerne la volontà. Ai medici è consentito parlare e scrivere sull’aborto, ma solo in pubblicazioni scientifiche e senza alcun riferimento ai propri servizi.
Alla notizia del rinvio a giudizio la dottoressa Hänel -che le cronache indicano essere stata appoggiata in Tribunale da circa 400 sostenitori ed al suo esterno da due manifestazioni- ha avviato una campagna sulla piattaforma change.org per richiedere la cancellazione dell’articolo 219a alla quale hanno già aderito più di 128.000 persone. Su internet è comparsa anche una pagina di solidarietà con lei e sull’edizione del 18/19 novembre del quotidiano taz è altresì stato pubblicato un collage di foto di 27 colleghi con la dichiarazione “noi facciamo aborti”, riecheggiando -come evidenzia la già citata SZ– una copertina del 1971 del settimanale Stern nella quale una molteplicità di donne, per forzare un cambiamento, rendevano pubblico di avere abortito. La taz ha parallelamente avviato anche una propria raccolta di firme di solidarietà con la ginecologa Hänel alla quale hanno aderito almeno una quarantina di professionisti. D’altronde già nel 1974 329 dottori avevano dichiarato pubblicamente allo Spiegel di aver effettuato degli aborti in aperta contestazione alla coeva formulazione dell’articolo 218 del codice penale che definiva l’interruzione della gravidanza un reato -come è ancora oggi- e non prevedeva restasse mai esente da sanzioni.
Dettaglio della copertina della taz del 18/19 novembre 2017 (twitter, https://twitter.com/tazamwe/status/931555035087024128)
La ginecologa Kristina Hänel ha in effetti esercitato un atto di protesta civile contro una norma che può essere ritenuta in contrasto con la libertà di informazione, la libera scelta del medico, la pianificazione della famiglia e la tutela dell’integrità corporale della donna. Non si deve dimenticare che se l’aborto non fosse praticato da medici preparati si ritornerebbe ai metodi di quelle che un tempo venivano chiamate le “mammane”, che usavano ferri da calza ed intrugli di erbe per indurre l’interruzione della gravidanza, nella più parte dei casi con esiti permanentemente invalidanti o peggio. A ben vedere la costruzione logica che impone l’obbligo di chiedere una consulenza prima di fare un aborto, perché accettando l’intervento medico per effettuare l’eliminazione dell’embrione si riconosce il diritto della donna a decidere sul proprio corpo ma contestualmente si nega una vita in potenziale divenire, è che la gestante non venga lasciata sola nella sua scelta e le siano prospettate anche le alternative possibili, come eventualmente accettare di concludere la gravidanza e dare subito il figlio in adozione. Per questo motivo però non dovrebbe essere contrastata neppure l’opera dei medici di informare le pazienti, come invece in effetti emerge per effetto della normativa tedesca.
Paradossalmente infatti per molte donne tedesche che abbiano timore di accedere alla centrale federale di informazione sanitaria o ai consultori riconosciuti in applicazione della legge del 1992 sparsi sul territorio, per quanto essi siano tenuti a garantirle l’anonimato, una delle poche fonti per individuare autonomamente via internet quale medico avvicinare per avere consulenza sull’aborto, sono gli elenchi in cui questi ultimi sono messi all’indice dalle organizzazioni anti-abortiste indicandoli come infanticidi. Motivo di più perché il tema venga affrontato seriamente in sede parlamentare; anche se (come emerge nell’articolo apparso su Filo Diritto nove anni fa “Brevi note sulla disciplina dell’interruzione della gravidanza nella Repubblica Federale Tedesca” del dottor Armin Kapeller, consigliere nella sezione di Bolzano della Corte d’Appello di Trento) nel suo complesso la legge tedesca ha già comunque profili sanzionatori più tenui rispetto alla legge italiana 194/78 ed è precisa nel disciplinare l’attività di informazione e di prevenzione delle gravidanze indesiderate.
Riproduzione riservata.
Immagine di copertina dettaglio della petizione della dottoressa Kristina Hänel su change.org (https://www.change.org/p/kristinah%C3%A4nel-informationsrecht-f%C3%BCr-frauen-zum-schwangerschaftsabbruch-219a-behindert-das)
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